Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
Gesù discepoli beatitudini

Mosè e il volto di Dio

Vedere Dio. Conoscere un volto e un nome. È Mosè l’emblema di questa ricerca spasmodica, propria di chi non si accontenta di adorare ciò che non conosce, ma che vuole “capire per credere, credere per capire”[1].
Ciò spinge il patriarca ad una richiesta, che è, al contempo, accorata e perentoria:

«Mostrami la tua gloria!» (Es 33, 18)

Solo le spalle

Dio non si sottrae alla richiesta, ma neppure accondiscende supinamente alla volontà di Mosè. Pronuncerà il proprio nome e si farà prossimo. Si farà vedere. Ma Mosè non vedrà altro che le spalle[2].
Perché? Nell’ebraismo veterotestamentario il tema dell’alterità divina è molto forte. Basti pensare, tra gli altri esempi, alla necessità che Mosè avverte di porsi un velo sul volto, per non mostrare la fine di quello splendore dovuto all’incontro con Dio[3].
C’è un mistero che permane, nella conoscenza. Dio è alla ricerca dell’uomo, come ha modo di evidenziare Heschel[4]: questo moto permea l’intera Scrittura, tuttavia, ciò non elide del tutto il mistero. Il mistero permane, pur nel suo progressivo svelamento, fino alla più grande opera di comunione di Dio nei confronti dell’uomo, che avviene, nel suo incarnarsi nel tempo e nella storia dell’uomo, condividendo ogni cosa, eccetto il peccato[5].

L’alleanza tremenda

«Ecco, io stabilisco un’alleanza: in presenza di tutto il tuo popolo io farò meraviglie, quali non furono mai compiute in nessuna terra e in nessuna nazione: tutto il popolo in mezzo al quale ti trovi vedrà l’opera del Signore, perché terribile è quanto io sto per fare con te» (Es 34, 9-10)

Quel terribile traduce l’ebraico in modo forse eccessivamente negativo. In italiano, è possibile mantenere meglio la polisemia con l’aggettivo tremendo: si può dire di qualcosa di enorme, così difficile da pensare che provoca timore e smarrimento. In un certo senso, potremmo equipararlo al concetto romantico di sublime. L’alleanza è tremenda perché inaudita. Non più un Dio da placare a suon di sacrifici. Un Dio che viaggia con il suo popolo, lo soccorre nelle avversità, sopporta pazientemente l’idolatria, attendendo con impazienza che ritorni a Lui, come il profeta Osea attende la conversione della propria sposa infedele.   

Una ricerca senza posa

Dai tempi di Mosè, profeti, apostoli e predicatori si sono succeduti, nel tempo. Perché non è stato l’unico a cercare il volto di Dio. Anzi, ancora oggi, nonostante l’illusione che la conoscenza tecnico-scientifica possa rappresentare l’integrità della sapienza, permane quell’inquietudine di fondo, che è la stessa dei santi del passato: Agostino, Antonio, Romualdo, Francesco, Chiara…

È Dio che fa crescere!

E, oggi come allora, ricercare insieme il volto di Dio risulta un’idea che funziona, nonostante questioni, che ci paiono attuali, ci portano gli echi di liti del passato. “Niente di nuovo sotto il sole”, direbbe Qohèlet.

«Né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere» (1Cor 3,7)

Perché questa precisazione si rende necessaria? Perché i confronti non mancano. Chi ha più carisma, chi maggiore sapienza, chi un sorriso irresistibile… in particolare, il “rivale” di Paolo pare essere un certo Apollo.
Ognuno predica il Vangelo come può, con quello che ha e che sa. E, di per sé, non c’è nulla di sbagliato in ciò: la ricchezza della Chiesa risiede, propriamente, nella varietà dei carismi con cui i suoi figli servono la Parola. L’importante è rimanere al servizio della Parola, in ascolto, non con la volontà di dominare tramite una (più o meno velata) simonia.

Gesù e lo sguardo sui discepoli

In Cristo, non solo Dio si fa visibile, ma anche incontrabile. Non solo è Parola viva e che dà vita. Non solo diventa concretamente tangibile, ma è uno sguardo che cerca il nostro sguardo[6], come vediamo nel dialogo coi discepoli, in cui illustra le beatitudini.

Le beatitudini di Luca e Matteo

Diverse sono le redazioni che ci sono giunte di questo “detto di Gesù”. Mentre in Matteo troviamo otto macarismi (“beati”) coniugati in terza plurale, con cui stride l’ultimo, alla seconda plurale, che emerge per la sua attualità, essendo in atto, per i cristiani, la persecuzione.

Di contro,  Luca presenta tre macarismi, più essenziali (ma, anche: più concreti!) nella loro espressione, cui si aggiunge il riferimento alla persecuzione, tutti rivolti alal seconda plurale.

I “guai” di Luca

Peculiare, è poi, in Luca, l’aggiunta speculare di quattro “guai”, anche in questo caso con tre costruzioni simili[7] ed una differente, introdotte da un’avversativa forte (“ma”).

La felicità paradossale

La versione di Luca, con la sua squisita concretezza (che – probabilmente – è anche la più vicina all’originale) ci offre un detto che ha sapore paradossale. Come può essere felice chi, povero,  manca del cibo, necessario per vivere? Come può esserlo chi è nell’afflizione?

La felicità possibile

In realtà, Luca suggerisce una lettura duplice. Da una parte, non è esente un riferimento alla concretezza della situazione di povertà (“i poveri li avrete sempre con voi”[8]), angoscia, tristezza. Dall’altra, le prime tre beatitudini sono strettamente legate alla quarta, che è la condizione del testimone di Cristo: esposto ai pericoli e alle vicissitudini che ciò comporta, trova però nel legame con il Figlio di Dio, quella pienezza di gioia, che si manifesta nella fortezza e nell’apertura ai suggerimenti dello Spirito.

La felicità, ora

È fondamentale sottolineare che la tensione escatologica non è mai l’unica lettura possibile, nel Vangelo. Senz’altro, possiamo leggervi un richiamo ad una giustizia divina che supera quella umana, manchevole e soggetta alla corruzione. Ma un cristiano non è mai – solo – con la testa piena di cielo, proiettato nell’aldilà. È anche un uomo che vive, concretamente, in mezzo agli uomini del proprio e, ad imitazione del Padre Celeste, è chiamato a diventare imitatore di ciò che vive in prima persona, sperimentando l’amore del Padre[9].


Rif. letture festive ambrosiane, nella VI domenica dopo Pentecoste: Es 33, 18 – 34,10; 1Cor 3, ; Lc 6, 20-31

Fonte immagine: Pixabay


[1] S. Agostino
[2]  «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Es 33, 20)
[3] Es 34, 29-33
[4] Nell’opera del filosofo della religione di origine ebraica Abraham Joshua Heschel, che ha, appunto per titolo “Dio alla ricerca dell’uomo” e che è un approfondimento del precedente “L’uomo non è solo” (mentre il secondo è recentemente riedito, per il primo suggerirei la ricerca in biblioteca, per il costo proibitivo…).
[5] Cfr. Eb 4, 15
[6] Lc 6,20
[7] Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti (Lc 6, 24-26)
[8] Mc 14, 7
[9] Cfr. 2Cor 1, 4: «Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio»

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