Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Cent’anni fa, a Catania, morì Giovanni Verga, il papà letterario dei “vinti”. Uno scrittore che ha dipinto i suoi personaggi con tanto amore, senza fretta, nascondendo un po’ di sè in ciascuno. Li ha dipinti con una tenerezza tutta sua che, ai lettori di ogni tempo, impedirà di forzare, per qualsiasi motivo, i loro più intimi segreti. Verga è stato molto più che un narratore: ha ideato un modo tutto nuovo di scrivere, leggere la realtà, dar voce ai battiti del cuore. Non è di quelli che giudicano: è gioioso di prestare la sua voce alle cose, ai fatti che accadono. Lascia che a conversare con i suoi lettori sia la realtà, sua maestà la realtà: “Le opinioni, un giorno, potranno anche deluderti. La realtà, invece, non delude mai” sembra dire ai lettori. Alle creature che, tentando di distanziarsi dallo scoglio sul sono nati, finiscono per esser “vinti”. Per costoro la terra non sarà mai lieve.

Quest’anniversario (1922-2022) l’abbiamo fatto diventar occasione per una rilettura del celebre “Discorso della Montagna” di Gesù, le “Beatitudini”. Questa collezione di apparenti assurdità che il Vangelo tiene in custodia, s’avvicinano tremendamentealla narrazione del Verga. Anche lassù, sul monte della Galilea, Cristo mostrò d’avere a cuore la felicità delle persone che gli stavano dinanzi. Anche allora l’uditorio era composto da sbandati, sbadati, persone forse anche inguardabili, nauseabonde, rivoltanti. Per loro, quel giorno, Cristo proclamò in diretta il manifesto del suo umanesimo. Gridò beati! a gente che, fino ad allora, non solo sentiva di non esserlo ma, ancor più, non sperava proprio un giorno di diventarlo. Era agli inizi il Cristo ma, pronunciando quelle parole, aspre solo a sentirsi, firmò la sua sentenza di morte: è vero che tutti vogliono diventare felici, ma il modo che indicò resta totalmente opposto a quello che ogni maggioranza sarà disposta a pagare di tasca sua. Perchè le Beatitudini sono parole che, nel mentre si pronunciano, hanno il potere ineffabile di cambiare la realtà stessa.

Rileggere il “Discorso della Montagna” nella sua Sicilia cent’anni dopo – e sentirle riecheggiare in voci e accenti dei vinti di oggi – è stato fare esperienza di cose minuscole, che sembrano non interessare più a nessuno: la passione, gli assilli, la religione della famiglia, la fedeltà alla casa, l’attaccamento alla roba, il lavoro, la solitudine, l’egoismo, la solidarietà e la rivolta, la rassegnazione e la fatalità. Il dolore, la crudeltà, la fame, l’ingiustizia. La paura stessa della libertà, di cui nessuno ama parlarne e che, invece, mantiene legato l’afflato del Verga alla profezia di Cristo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Libertà che imporrà all’uomo e alla donna di ogni tempo di ricalcolare continuamente la rotta, come il navigatore quando si sbaglia strada: “Se non ti è mai successo non potrai capire che cosa vuol dire” sembrano dirci i vinti di oggi. Di ieri, di domani.

Nel nuovo programma di Canale 5 (nove puntate, da domenica 23 ottobre, ore 8.50) abbiamo provato – con tutto il diritto d’aver, alla fine, fallito il bersaglio – a rileggere oggi quel discorso di ieri destinato a riecheggiare anche domani: “Tu: che sei nato sotto una cattiva stella, che sei stato menato a dismisura, che hai le lacrime agli occhi, che hai sopportato le più perfide sozzure, che hai una fame assassina d’essere nel giusto, che hai scusato chi ti ha vomitato in faccia, che tieni il cuore puro di bambino, che hai fatto guerra alla guerra, che sei stato massacrato pur essendo innocente. Proprio tu: al quale hanno sputato in faccia, asfaltato d’ingiurie perchè sei di Cristo, proprio tu sarai beato!” Di vinti, cent’anni dopo la morte del Verga, Catania ( l’Italia) ne è ancora zeppa: poche città, come lei, possono vantare il lusso d’essere intrise di miseria e di nobiltà, di Grazia e di malaffare, d’omertà assassina e trasparenza diafana. Di egoismo, di carità, di pietà. Catania è la città di Sant’Agata e dei Santapaola. Anche dei nostri nove protagonisti che hanno accettato di scortarci nelle trame delle loro esistenze alla ricerca, come direbbe Calvino, di ciò che non è inferno dentro l’inferno della storia. Assieme a questo gruppo di amici abbiamo iniziato la caccia al tesoro in cerca dei vinti non ancora del tutto sconfitti, vinti che non hanno ancora perduto il gusto della sfida. La speranza della beatitudine.

La chiave di lettura migliore, alla fine, l’ho ritrovata nella storia di Emiliano che è stato il mio Virgilio dentro il dedalo, il caleidoscopio della sua Catania «Un uomo di Sant’Egidio – mi racconta, raccontandosi – è uno che prende sul serio il Vangelo, prega la sera insieme agli altri, ha almeno un povero per amico. Non ha una storia di volontariato alle spalle, ma di amicizia reale con un povero. Non un’amicizia fluida, un amore per sempre». Non è, questa, la carta d’identità del cristiano? Dell’umano? «Chi non l’ha letto una volta sola e non ha provato tutto questo, non c’è nessuno più di lui che meriti il nostro amore. Tutto l’amore degli uomini non potrà mai ripagarlo di quel che ha perso» scrisse Giovanni Papini.

Le beatitudini sono storie di uomini e di donne che si azzardano di credere nel rischio della salvezza, nel miracolo di una luce. Nell’avversarsi di una felicità che si pensava scomparsa. E che, invece, è sempre ad un passo dal possibile.

(da La Stampa, 22 ottobre 2022)

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