Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
Roots: radici degli alberi sostengono la montagna

Cattolico, perché di tutti

Ci sono pensatori geniali, lungo la modernità e la contemporaneità, che si interrogano, con ardore, sulla modalità con cui poter presentare il cristianesimo in modo universale e appetibile a tutti.

Non è del tutto colpa loro: tra guerre di religione e contrapposizioni ideologiche, come non comprendere che l’universalità dell’appello rischi di passare inosservata? Come sottolinearlo all’indiano, per anni sotto il gioco dell’imperialismo britannico? Come farlo comprendere alla nazione tedesca del tempo delle Riforme, insanguinata da guerre di potere die principi, sotto le mentite spoglie di supremazia religiosa?

E gli esempi, purtroppo, si sprecano anche nell’attualità… ecco perché questo pensiero si fa pressante, impellente, irrinunciabile. Si vede un bene, nel contenuto etico del cristianesimo, ma si percepisce anche la “cattiva fama” che emerge, per via dei suoi seguaci. Il risultato rischia di essere, però, un riduzionismo, perché la portata rivoluzionaria del cristianesimo va ben oltre l’istanza etica che lo accompagna.

È con il cristianesimo e, in particolare, con  l’avvento della chiesa che l’universalità si fa esplicita. Non a caso, καθολικός (katholikos) significa “universale, generale”. Ciò che è cattolico, è tale in quanto si rivolge a tutti. Il cristianesimo nasce universale. Forse appunto perché “il Verbo si fece carne” e quella Parola inaudita divenne pronunciabile: proprio in virtù di ciò, il “Verbo abbreviato e abbreviante” (Origene) divenne raggiungibile

“Tutte le genti e tutte le lingue”

Sarebbe però improprio pensare che l’istanza universale nasca con il cristianesimo. In realtà affonda le sue radici in epoche ben anteriori.

Se è vero che, inizialmente, la concezione divina era quella di una divinità di tipo etnico e che, a lungo, accanto alla teologia deuteronomistica istituzionale, rimasero i lasciti di una religione rurale e riferimento ad una fede in YHWH localmente diversificata, a poco a poco, dal dio unico di Israele, si passa ad una concezione del divino che abbraccia l’intero ecumene e, complici anche le vicissitudini dell’esilio e della dispersione, si apre all’accoglienza di genti provenienti da etnie geograficamente distinte e distanti.

Nel libro di Isaia, in particolare, troviamo diversi esempi, che illustrano come la progressiva maturazione della teologia giudaica sia arrivata a concepire un disegno di salvezza che non segua più confini geografici o suddivisioni tribali:

“È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra”
(Is 49,6)

Ecco, tu chiamerai gente che non conoscevi;
accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano
a causa del Signore, tuo Dio,
del Santo d’Israele, che ti onora
(Is 55, 5)

Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria (Is 66, 18)

L’unico Dio, la cui fede è condivisa, diventa a questo punto, al contempo, polo attrattivo comune e motivo d’incontro. Israele non perde il proprio ruolo chiave, ma scopre che la propria chiamata non avviene a discapito d’altri, ma all’interno di un amore di Dio, che ha uno sguardo più ampio dei confini di un popolo o di una nazione.

La vita consacrata

L’ultimo versetto della prima lettura della V domenica dopo l’Epifania ci richiama la festa della Vita Consacrata, celebrata, come da 27 anni a questa parte, in occasione della festa della Candelora, in cui ricordiamo la Presentazione di Gesù al tempio:

Anche tra loro mi prenderò sacerdoti leviti, dice il Signore (Is 66, 21)

È un promemoria che, come dirà Gesù nel Vangelo, «da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo» (Mt 3,10). Con il rabbi di Nazaret, il sacerdozio non è più  questione di lignaggio, non è più un “affare di famiglia”. Di più. Quel sacerdozio, come dice san Paolo[1], è abolito. Nel Battesimo, ciascuno di noi, in Cristo, diventa re, profeta e sacerdote.

Piante e vocazione

La vita consacrata chiama il consacrato o la consacrata a cercare le radici del proprio Battesimo. A vivere la radicalità del proprio Battesimo. Perché di questo si tratta. I consigli evangelici (povertà, castità, obbedienza, che ogni religioso emette) non sono che il mezzo proposto per raggiungere questo fine. La radicalità del proprio battesimo[2]. È nel battesimo che si inscrive la consacrazione, così come il matrimonio.

Pur non essendo il primo un sacramento, al contrario del secondo, rappresentano, ambedue una modalità di ufficializzare la scelta del proprio stato di vita.
Perché, nella Chiesa, nessuno – neppure un eremita – può considerarsi un’isola, ma ogni scelta di vita avviene per l’edificazione reciproca.

Inutilità della consacrazione

Ma a cosa serve la vita consacrata? Diciamo la verità. Spesso, la domanda affiora anche all’interno della Chiesa. Riusciamo a ridurre a criteri utilitaristici persino la gratuità del dono.

Perché, finché si tratta di un sacerdote, cui vediamo celebrare un funerale, o una suora che vediamo in servizio in ospedale o, più in generale, di tutti quei casi in cui la loro funzione diventa “civile” possiamo accondiscendere che abbia una certa utilità.

Quanto manca, alla nostra società, la cultura agricola che fu dei nostri nonni: la consapevolezza di tempi e ritmi di cui non possiamo disporre a nostro piacimento e la contemplazione ammirata della sapiente predisposizione di ogni cosa perché ogni elemento del sistema possa trarne il meglio!

La vita consacrata, appariscente o nascosta che sia, vuole vivere quello che mette in luce il Vangelo di Giovanni: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24). Nella terra, nella profondità della terra, affondano le radici. Per la Chiesa, le radici sono il silenzio e la preghiera, che nutrono l’intero corpo ecclesiastico, pur rimanendo invisibili. Del resto, possiamo noi vedere quando una pianta si nutre, osservandone il tronco?

Inutili, come l’amicizia

«L’amicizia è superflua, come la filosofia, l’arte, l’universo stesso (Dio infatti non aveva bisogno di creare)»: eppure, anche se «essa non ha valore ai fini della sopravvivenza», «è piuttosto una di quelle cose che danno valore alla sopravvivenza»[3].

La vita consacrata è inutile. In qualunque forma. Come è inutile l’amicizia. Forse, di un’inutilità tanto più indispensabile, quanto più sembra del tutto superflua.


Prima lettura festiva ambrosiana, V domenica dopo l’Epifania, Anno A

18Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros, Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunceranno la mia gloria alle genti. 20Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari, al mio santo monte di Gerusalemme – dice il Signore -, come i figli d’Israele portano l’offerta in vasi puri nel tempio del Signore. 21Anche tra loro mi prenderò sacerdoti leviti, dice il Signore.
22Sì, come i nuovi cieli
e la nuova terra, che io farò,
dureranno per sempre davanti a me
– oracolo del Signore -,
così dureranno la vostra discendenza e il vostro nome.
(Is 66, 18b -22)


[1] Eb 10,9

[2] Ciò è ben evidenziato dal rito camaldolese della professione monastica semplice, dal momento che il priore specifica, nella domanda al candidato: “Tu sei già consacrato a Dio mediante il battesimo, che è la consacrazione fondamentale e la radice di tute le altre”

[3] C.S. LEWIS, I quattro amori, p. 70, Jaca Book 2021

Ringrazio sr.Roberta Vinerba, letta tramite Facebook, per l’idea

Una risposta

  1. Difficile tutto ciò.. Ma alla fine hai chiarito ogni dubbio. Il Battesimo ci consacra già. Ecco adesso va meglio. Grazie Maddalena.

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