Questa domenica, i cristiani celebrano la solennità più impegnativa di tutte (perché è motivo di contrapposizione con ebrei e musulmani). Quella che, forse, ha creato più controversie nella millennaria storia della Chiesa. Ma, anche, quella che, attualmente, riesce ad unire pressoché tutte le confessioni del cristianesimo. La Santissima Trinità.
La frescura di Mamre
Lo scenario che apre la prima lettura[1] ci è abbastanza familiare, in questi giorni di primi caldi estivi. Quando il sole arroventa il cammino e riceverne i raggi diretti diventa un’esperienza insopportabile, un po’ d’ombra e un goccio d’acqua diventano il miraggio più allettante sia per il pellegrino urbano che per il camminatore in vacanza.
L’ospitalità premurosa
Nell’episodio delle querce di Mamre, Abramo fa anche di più, per i tre forestieri. Non solo un posto all’ombra e un po’ d’acqua fresca: delle focacce, panna, latte e il miglior vitello possibile. Perché l’ospite va onorato. È difficile comprendere davvero – in modo realistico, intendo! – questa frase. Forse, è impossibile, senza passare per l’Africa. Quel luogo dove tante cose sono perfettibili, dove la corruzione regna. Ma se io vedo un ospite, rinuncio a mangiare io, a dormire nel mio letto, purché sia sazio e ben riposato lui.
Il sorriso di Dio
È in questo contesto che nasce il “sorriso di Dio” che è Isacco, perché è legato a questo episodio l’annuncio della maternità di Sara e l’arrivo del figlio della promessa tanto atteso. Perché questa lettura è presto detto: già dai primi secoli, i Padri della Chiesa rinvenivano, in questo brano, una delle più precoci anticipazioni trinitarie con cui il Primo Testamento pennellava la natura di Dio. A ricordo dell’ospitalità ricevuta, Abramo riceve in cambio il compimento della promessa a lungo attesa: «in te saranno benedette tutte le genti»[2]. Attraverso Abramo, dunque, arriva anche a noi l’eco della Trinità: la sorpresa di un ospite inatteso, che, facendosi compagno di viaggio, ricerca l’amicizia dell’uomo.
Una comunione domestica
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23).
Ho sempre amato particolarmente questa pericope – che richiama da vicino quella di Apocalisse 3, 20[3] –, in quanto capace di unire, tramite un’immagine semplice ed immediata, familiarità e desiderio. Il Padre e il Figlio, uno nel desiderio, voglio immettere l’uomo in quest’amore che lo abbraccia, come in un invito a cena, a cui nessuno debba sentirsi escluso.
Eros e agape
Troppo a lungo nel tempo, ha dominato il pensiero cristiano la necessità di un amore oblativo come cifra cristiana. Solo nell’unione di desiderio e oblazione si realizza compiutamente l’amore, come sottolinea Benedetto XVI:
«In realtà eros e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere. Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande promessa di felicità — nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà « esserci per » l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono»[4].
Un insegnante speciale
In quest’unione non può mancare il terzo elemento, il grande dimenticato: lo Spirito Santo. Per ascoltarlo, è indispensabile tacere. Per ascoltarlo, è indispensabile essere umili. Perché essere umili significa essere consapevoli di poter imparare qualcosa. Si tratta della condizione indispensabile per poter imparare. Lo Spirito Santo è il miglior insegnante possibile: proprio per questo, però, gli è impossibile oltrepassare il blocco che, eventualmente, gli imponiamo noi, con la nostra superbia.
Mistero d’amore
Se c’è un elemento – ma non è il solo[5] – che spinge anche la ragione a ritenere oltre-umana la religione cristiana è proprio la Trinità. Un Dio unico può essere ancora compreso, contenuto nella nostra testa. E se la nostra testa lo contiene, potrebbe anche essere, semplicemente, un suo prodotto. Ma noi sappiamo bene quanto vivere assieme sia complicato, difficile, necessiti di continui assestamenti e richieda la fatica dell’amore e della comprensione. Forse, per questo, vorremmo evitarlo a Dio.
La Trinità, pur oltrepassando la comprensione, lascia intravvedere la necessità di un Dio che non sia solo desiderato ma anche desiderante l’uomo. Altrimenti, non si spiegherebbe la follia di un Dio che si fa debole e fragile, pur di andare a cercare l’uomo perduto.
Rif. letture festive ambrosiane, nella solennità della SS. Trinità
Fonte immagine: Pexels
[1] Genesi 18, 1-10
[2] Genesi 12, 3
[3] “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”
[4] BENEDETTO XVI, Deus caritas est (2005), n. 7
[5] L’altro è senz’altro la Croce. Rimane – probabilmente: rimarrà sempre! – anti intuitivo, per l’uomo, pensare ad un Dio sconfitto. Nella storia delle religioni, l’uomo ha pensato a Dio come ad un super-uomo, qualcosa o qualcuno con caratteristiche umane, ma potenziate, al massimo, eventualmente, anche nel proprio aspetto negativo. Pensare un Dio s-confitto alla Croce mette alla prova la superbia umana, ereditata da Adamo, che vede nel potere un elemento imprescindibile di chi si vuole definire un buon re (governatore).
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