Sono le ultime ore di un condannato a morte. Al Cristo non resta che una sola giornata di sole a disposizione, proprio Lui ch’è stato il Sole di quelle dodici pallide lune: “Offrirò loro una cena”, questo ha deciso. Prima d’arrampicarsi sul legno, di patire quella sete marcia – «Ho sete!» (Gv 19,28) – abbevera gli amici. Di più: prima che la sua faccia venga lavata con sputi e saliva, vuol sciacquare i piedi di coloro che, da domenica, attraverseranno il mondo raccontando di che morte han fatto morire la Vita. La cena, dunque: «Ho desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22,15). “Ardentemente” è avverbio di fiamma, materiale combustibile, cuore in allarme. E’ confidenza di desiderio e il desiderio è ancora più grande quando è appeso ad un filo. Ad una Croce. Quella cena – agnello allo spiedo, pani rotondi senza lievito, erbe amare, salsa rossa, vino di grazie, acqua calda – è l’ultimo desiderio di un condannato a morte. E il condannato, l’ultimo giorno, ha diritto alla grazia che invoca. “Tutti a tavola!”, tutti seduti: «Tutti erano muti, come aggravati da presentimenti che avevano paura di ritrovare negli occhi dei compagni» (G. Papini). Che Lui li amasse era cosa che tenevano come certezza: quanto li amasse, però, non era materia di loro conoscenza. Fu una cena esagerata, «ardentemente»: non c’è amore senza esagerazione. Desiderò anche loro ardentemente, come si bramano le cose più desiderabili, i misteri impenetrabili, i cuori più in allarme.
A cena, poi, li sorprese: tese loro un agguato. Li sfidò dal basso: Lui ch’era venuto dall’Alto per illuminare bassifondi, scantinati, sottoscala. A scartavetrare i piedi, che sono i ripostigli delle sciagure. Li sfidò rasoterra, proprio loro ch’erano uomini con i cuori ancora gonfi di boria, i cervelli riluttanti al servizio: «Cominciò a lavare i piedi dei discepoli» (Gv 13,5). L’Uomo, accartocciato ai loro piedi, ha la bellezza di un imperatore: trasuda un’imperiale tristezza, ha i connotati della gioia. I piedi sono tutti numerati: due-quattro-otto-dodici-diciotto-venti-ventidue. Ventiquattro: anche Giuda ha dei piedi sporchi, anche lui ha percorso le strade merdose della Galilea per saziare il suo bisogno di vita. Gli occhi di tutti stanno fissi sui piedi dell’amico antipatico. Giuda, ch’era il loro tesoriere, sta a sentire tutti quegli sguardi fissi su di lui, ai suoi piedi: è una cosa insopportabile il peso di tanti sguardi fissi su di te. L’altro, il Cristo-lavandaio, non ha dubbi in materia, manco in merito: l’acqua, l’asciugatoio, il bacio. Non “anche-per” l’Iscariota, “sopratutto-per” Giuda: «Non sappiamo ciò che vogliamo ma siamo pronti a mordere qualcuno per ottenerlo» (W. Rogers). Il Cristo sa cosa vuole, è pronto a mordere Satana per ottenere Giuda. E sciacquando i piedi a Giuda è come se l’avesse salutato chiamandolo “signore”, Lui ch’era suo Signore. Quel bacio parve la bava di una lumaca sopra una rosa.
Il Servo è in piedi, il cibo sta per essere servito. Dopo l’acqua, ha un tozzo di pane in mano: «Prendete, questo è il mio corpo che è dato per voi». Li sfidò a colpi di sorpresa: s’aspettavano ciascuno la sua parte, s’accorsero che Lui dava loro Se-Stesso per intero. Amore di sovrabbondanza, faticoso da raccogliere nei loro piccoli cuori. Li acciuffò per i piedi con l’acqua, li colpì allo stomaco con il pane, fece girare loro la testa con una scommessa: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19). C’è profumo di lavanda nella navata del cenacolo: è la prima ordinazione della storia. Sono i primi dodici sacerdoti dell’umanità: don-Giovanni, don Pietro. Don Giuda: «Oh! L’orribile popolino con le sue grida da iena» (V. Hugo). Brividi.
Cristo ha la schiena a pezzi per lo stare in ginocchio: ci ha messo una certa umanità nella faccenda. Nessuno, però, che ricambi. Manco uno che si alzi per far sedere il Maestro. “Siediti che adesso laviamo noi i piedi a te”. Nessuno che, vedendo Giuda scappare, l’abbia rincorso: “(Ri)pensaci, amico! E’ qui apposta per noi stasera”. Li hanno lasciati soli tutti e due: quello che dentro ha Iddio, quello che dentro ha Satana. Gli amici hanno lasciato andare via da soli quei due amici.
(da Il Sussidiario, 18 aprile 2019)
Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.
Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Giovanni 13,1-15)
Editoriali della Quaresima
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