Buon Pastore, bello

La chiesa dei primi tempi

Primi tempi, non necessariamente “primitiva”. Dei primi tempi, dei primi passi, delle prime scelte: nel solco del Maestro, ma senza di Lui.
La prima lettura, come di consueto in questo periodo, tratta dagli Atti degli Apostoli, ci presenta luci e ombre di questo periodo.
Da una parte, vediamo, la crescita, esponenziale, che va a toccare anche l’ambito più ostico, cioè quello dell’autorità sacerdotale, con cui, già in vivente, Cristo si era scontrato  (“anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede”[1]), dall’altro, abbiamo le prime diatribe, tipicamente fraterne, che iniziano, com’è abitudine, con “Non è giusto!”[2].

Stefano e i primi “diaconi”

Stefano, protomartire, è nel computo dei primi sette “diaconi”. Stando al racconto, questa figura nasce da una necessità concreta, che è quella di riuscire a tenere testa alle necessità della chiesa primitiva, che, da un lato è in espansione, dall’altro cerca di definirsi, “smarcandosi” dal giudaismo che, alla luce della Resurrezione di Cristo, pur rimanendo un punto di riferimento, inizia ad essere, ormai, un po’ stretto per le esigenze della nuova comunità.

Bello e/o buono?

“Io sono il pastore, quello bello”[3]. Così dice il greco che, anche nella letteratura, tende sostanzialmente ad identificare ciò che è bello con ciò che è buono, come possiamo vedere, nel suo esempio famoso, proprio nella figura di Tersite[4], nella saga di Odisseo.
Così, potremmo dire  che, nonostante le sottolineatura estetica (spesso ad opera di comunità femminili che ci tengono a sottolineare la bellezza dello Sposo), le due espressioni, in un certo senso, si richiamo e – quasi – si identificano, per cui, il pastore è bello e buono. Riflette nel volto la bellezza che lo abita. Del resto, credo che ne abbiamo fatto esperienza tutti. C’è una ricchezza interiore che, al di là dell’estetica e persino dalle condizioni di salute, emerge dall’interno, per illuminare l’esterno, perché, quando uno ha incontrato la grazia, non può che trasparire anche dal sorriso o dai gesti.

Il pastore e il mercenario

Pastore o mercenario? Spesso, la lettura si isterilisce unicamente nella visione clericale di quest’immagine. La dicotomia, però, non riguarda solo il sacerdote sommo, Cristo, con i suoi vicari, né chi si presume tale, pur senza averne ricevuto l’incarico: possiamo trovarla anche in noi stessi. Ne va della nostra relazione con la nostra vita. In ogni scelta, possiamo essere mercenari oppure pastori. Dipende da come viviamo il nostro tempo. Se viviamo quanto ci è affidato come un dono, oppure come qualcosa su cui dimostrare la nostra bravura. Solo nel primo caso siamo liberi, perché, anche quando abbiamo fatto tutto quanto è nelle nostre possibilità, lasciamo che Dio completi, consapevoli che “tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio”[5].

L’offerta di Cristo

Del resto, il buon pastore, di cui lo stesso Cristo offre l’immagine e che è ben presto accolta e divulgata, nell’arte, dai primi cristiani, non è assimilabile a nessun’altra immagine che pur l’ha preceduta o ne è stata l’origine. Chi, infatti, potrebbe dire, non solo di offrire la vita, ma che «nessuno me la toglie, io la do da me stesso» (Gv 10, 18)? Si tratta di un’offerta inaudita che, in questo modo, attesta l’unicità della pretesa cristiana. Cristo non è solo un brav’uomo, un giusto, un profeta, un maestro di morale. Anzi, a ben vedere, altrove si possono trovare indicazioni morali più specifiche che nel Vangelo che, risulta scarno di indicazioni giuridiche, al contrario del gran numero di prescrizioni rinvenibili nella Torah.

Uno, senza escludere nessuno

“Un solo gregge, un solo pastore”[6] è l’auspicio di Cristo, che però non rende esente la comunità delle origini da diatribe, legate alla propria composizione etnico-linguistica[7], testimonianza che se la via della pace è senz’altro possibile ed auspicabile, il dialogo tra culture differente non è mai privo di difficoltà e richiede costanza, umiltà, abnegazione, ma anche il coraggio di una testimonianza autentica e radicale, perché solo nell’autenticità posso offrire al dialogo l’opzione di un confronto non solo sincero e leale, ma anche reciprocamente arricchente.

Desiderio di Verità ed ecumenismo

È vero che la Chiesa non detiene, per così dire, le chiavi dell’unica possibile strada di salvezza. Tuttavia, è Cristo, il Verbo incarnato, la fonte ed il compimento, non solo delle Scritture, ma anche di ogni rivelazione salvifica di Dio all’umanità[8]. Infatti, pur considerando che i testi sacri di altre religioni «non raramente riflettono un raggio di quella Verità, che illumina tutti gli uomini»[9], non possono essere considerati la pienezza della Rivelazione e – piuttosto – si può dire che ricevano «dal mistero di Cristo quegli elementi di bontà e di grazia in essi presenti»[10]. L’unicità del Buon Pastore, rispetto a qualunque altra strada, è  proprio il motivo per cui non è possibile pensare ad una salvezza che aggiri la fede in Lui ed è, al contempo, motivo per l’aspirazione universale della chiesa, in ogni tempo[11], che, raccogliendone, per così dire, il testimone, è chiamata “sacramento universale di salvezza”[12].

Evangelizzazione dei pagani e responsabilità personale

Come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: «Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!» (Rm 10, 14 -15)

Questo brano richiama “l’altra faccia della medaglia”, che è la testimonianza. È riduttivo pensare che “ciascuno si comporti bene, Dio salverà”. È riduttivo, in quanto deresponsabilizzante. Quanti santi, come ad esempio Francesco Saverio, hanno preso sul serio la sollecitazione di queste parole paoline, trasformandola in solerte ed accorata sollecitudine evangelica, affinché nessuno rimanesse escluso dell’annuncio? Proprio perché vedo nell’altro, chiunque sia, un potenziale fratello in Cristo e, nella fede, la forza liberante che “fa nuove tutte le cose”, dovrebbe essere inevitabile annunciare Cristo, una volta che lo si è incontrato.


Fonte immagine: Wikimedia

Rif. letture della IV domenica di Pasqua, secondo il rito ambrosiano


Bibliografia consigliata:

Lumen Gentium (21 novembre 1964)
Dei Verbum (18 novembre 1965)
Nostra Aetate (29 giugno 1966)
Fides et Ratio (14 settembre 1993)
Dominus Iesus (6 agosto 2000)


[1] At 6,7
[2] At 6,2
[3] Gv 10, 11
[4] Brutto ed infido, personaggio dell’Odissea, che diventa simbolo dell’inaffidabilità e della vigliaccheria, oltre che testimonianza della reciproca relazione tra esteriorità e interiorità, nella cultura greca.
[5] 1Cor 3, 23
[6] Gv 10,16
[7] At 6,1
[8] Dei Verbum, n. 4
[9] Nostra Aetate, n.2
[10] Dominus Iesus, n. 8
[11] Così ha modo di scrivere Ireneo, rispetto alla preminenza di Gesù come Primogenito: « Nei cieli come primogenito del pensiero del Padre, il Verbo perfetto dirige personalmente ogni cosa e legifera; sulla terra come primogenito della Vergine, uomo giusto e santo, servo di Dio, buono accetto a Dio, perfetto in tutto; infine salvando dagli inferi tutti coloro che lo seguono, come primogenito dei morti è capo e sorgente della vita di Dio » (Demonstratio, 39: SC 406, 138).
[12] Lumen Gentium, n. 48

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