Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

(PADOVA) “Un prete non può scrivere un romanzo così” mi sono detta, arrabbiandomi non poco quando me l’hanno fatto leggere. Siccome l’ha scritto – e qualcuno glielo ha pubblicato (la cattolicissima San Paolo, tra l’altro) – allora questo o è un prete da scomunicare o è uno con una libertà interiore invidiabile. Su di lui ho letto tutto e il contrario di tutto: la letteratura supera la realtà. Lo cerco, voglio pesarlo e capire perchè un prete scriva di bordelli ed eucaristia nelle stesse pagine. Mi risponde, quando immaginavo scansasse l’email, come mi avevano avvisato in tanti.
Ci troviamo in un bar anonimo, zona carcere di Padova: la sua parrocchia eretica. Su misura.
Sneakers, jeans strappati. Più il sorriso che gli avevo visto su internet.

Partiamo dal titolo: “Alla fine è sempre all’improvviso”

«E’ facile vivere l’atteso, anche con Dio. È stata la mia fregatura: è quando vivi l’inaspettato che cominci a divertirti con la tua vita. “All’improvviso” è il modo con cui la vita continua a rimettermi pancia a terra: io la calcolo, l’immagino e lei mi spiazza. Io cerco l’addestramento, lei mi manda eternamente allo sbaraglio. “Alla fine è sempre all’improvviso”, e io sono sempre impreparato con lei».

Impreparato. Dunque “gravemente insufficiente” come a scuola.

«Tutto il contrario, invece. Quando affronti per la prima volta una cosa, vivi una storia, ci sono due ingredienti infiammabili: l’ignoranza di chi non ha nessun precedente a cui rifarsi. E lo stupore di chi vive per la prima volta l’inaspettato. Ignoranza più stupore sono l’eccitazione più spietata per il mio cuore ballerino».

Perchè l’ha scritto?

«Non l’ho scritto: gli ho soltanto prestato la penna. Ha fatto tutto da solo lui, quando la gestazione era completa. A Gerusalemme, dove l’anno scorso ho trascorso un periodo sabbatico: la testa era fusa, il cuore in panne, lo sconforto ai massimi livelli. “Ho un’amica, ti ospita lei” mi dice un mio amico argentino. Di lui mi fido al volo: accetto la proposta. Incontro Mika, un’ebrea argentina di settant’anni: a casa sua mi sento a casa (“il celibato era al sicuro!” ride!). Solo alla fine – pensa quant’ero scoppiato! – scopro che lavoro fa: è una psichiatra. Strana, ovviamente: con la scrittura, cura i pazienti. Praticamente questi due argentini mi hanno teso un agguato. Il romanzo è il frutto di questo lavoro infame che la vita mi ha costretto a fare: da “leccare l’asfalto con la lingua”, come dicono in gergo i ciclisti».

Un prete dallo psichiatra.

«Le dico di più. La forza di restarci non l’ho trovata nella preghiera, ma in un’intervista di Sofia Goggia, che adoro pazzamente: sono dissacrante! Scrisse: “Un atleta d’elite può lavorare solo sulla crescita interiore. La psichiatria è il tabù dei tabù, non se ne parla. Ci vuole coraggio a cambiare se stessi». Mai preso un farmaco: solo la terapia delle parole. Per me dallo psichiatra ci andavano solo i matti: invece ho scoperto che se vuoi ottenere delle cose belle devi metterti in gioco, andando a perlustrare i tuoi posti più inaccessibili. Da solo non ce la fai, però».

Juliàn.

«Un bastardo di prima classe per la società: ha ammazzato, deve morire. In carcere l’improvviso l’agguanta: una poesia scarabocciata sul davanzale, una rondine che fa il suo nido alla sua finestra, un pescatore che entra nella sua cella. Accade tutto all’improvviso. E alla fine il bastardo diventa l’uomo-immagine della risurrezione. Chiedete ai bambini della parrocchia di Val Orino chi è don Julian. Chiedetelo alla gente di quella vallata ch’era uscita con le ossa fracassate dalla gestione dell’ultimo parroco che, coi bambini, ne aveva fatto peggio di Bertoldo. E mi fermo qui».

Val Orino, da disastro qual’era, diventa una parrocchia miracolata.

«Non è stato un miracolo, ma il risultato di una precisa scelta di don Juliàn: quella di usare la sua storia per raccontare la storia di Cristo. Lui è un prete insolito: non usa la castità, la povertà, l’obbedienza per farsi un impermeabile per le burrasche della storia, come tanti. Per questo il suo Vangelo attecchisce nel senso più botanico del termine: è Vangelo di pelle e ossa, ferite, cicatrici, occhiaie, batticuore. Non è un discorso teologicamente perfetto: è una storia umanamente imperfetta. Credibile, dunque».

L’altro prete, don Giacomo, si sposa. Ha fallito?

«Nel salto in alto, alle Olimpiadi, si può vincere la medaglia d’oro anche se l’asticella cade due volte. Un prete che s’innamora non è una maledizione ma la più bella delle benedizioni. Il vescovo della diocesi di Penelope (dov’è situata la parrocchia di Val Orino), monsignor Alberino Mosti, non capisce che quello di don Giacomo è un passo in avanti, non un passo indietro. Ha inciampato, è vero: ma quando si inciampa, si fa comunque un passo in avanti. Io i pochi passi in avanti che sono riuscito a fare nella mia vita li ho fatti soltanto inciampando. Faccio luce su me stesso solo inciampando: sono alquanto strano».

Troppo dettagliata come storia d’amore per averla inventata, lo sa?

«Non invento più da tempo, da quando ho scoperto che la vita reale è molto più ammaliante di quella immaginata. Le notti agitate di Giacomo le conosco molto bene: sono le notti dei preti. Popolate di Dio e della Madonna, ma anche di mostri, di solitudine, di pensieri accigliati, scappatoie, di analgesici. Quella solitudine mi ha devastato l’anima: è una solitudine cieca, bastarda, angosciante. Chiudi la porta e ti senti solo al mondo, dopo aver dato al mondo il meglio di te durante il giorno. Non ne dimentico una di quelle notti. Certe notti, poi, certi pensieri sono delle vere e proprie istigazioni al suicidio: non esagero. E non sai a chi confidarli, soprattutto se la tua faccia è sotto i riflettori e il rischio della gogna alle stelle».

E arriva Lavinia.

«All’improvviso. L’unica ragazza che (don) Giacomo non cerca, tra tante che invece ha cercato, certamente sbagliando. Lei arriva con la sua storia rotta, bugiarda, saccheggiata. Don Giacomo, nel silenzio di un confessionale, le porge la salvezza. Lei, però, diventa la salvezza di Giacomo. Il loro amore non è facile, non è nemmeno un gioco: c’è un sacerdozio di mezzo, c’è la gelosia di un Dio che non puoi sottovalutare. Alla fine, quando nascono Giosuè e Cecilia, il finale è lo stesso che aveva predetto Lavinia: “Alla fine Dio trova sempre il finale migliore”. Un prete che s’innamora non è fallito. Anzi: è un prete che, senza innamorarsi, non avrebbe mai capito mai che cosa significhi che “Dio è amore”. O l’ha capito soltanto in teoria, com’era accaduto a me fino a quel momento. Ma il cuore non vibra per delle teorie».

È lei (don) Giacomo?

«Se un poeta avesse voluto spiegare la poesia avrebbe scritto una prosa. Non le cambia nulla sapere chi è (don) Giacomo. Quando Giosuè, il giorno della sua Prima Comunione, leggerà la lettera che mamma e papà gli hanno scritto, capirà da solo di non essere affatto frutto del peccato: è il risultato del più grande capolavoro che Dio, come un navigato equilibrista, ha compiuto nel sacerdozio di Giacomo. Nella storia di Lavinia».

Lavinia è un nome inventato?

«Nelle manovre di Dio è una “collaboratrice di giustizia”: ha testimoniato contro la mia dichiarata perfezione. Giustamente, come tutti i collaboratori, vive “sotto protezione” almeno nel nome. È l’unica cosa che mi ha chiesto quando le ho confidato che stavo scavando dentro di noi. (ops! forse sto dicendo troppo)».

Lo sapevo!

«Prossima domanda?»

«M’illumino d’immenso»: la poesia più amata dagli studenti.

«Lo pensava anche don Juliàn, come lo pensavo io. Poi, quando ti si attacca addosso, scopri che capire La Divina Commedia è molto più semplice che tirare fuori da questa poesia la sua vastità. Questa poesia è l’incrocio nel quale nasce la splendida amicizia di (don) Giacomo e Julian: accade di tutto, l’impensabile, il mistero. Pensare che sono quattro parole messe in fila indiana. Ungaretti è uno dei miei poeti preferiti: ha parole concise, decise, pestifere, dannate. Graziose».

Il carcere è lo scenario della parte centrale del romanzo.

«La mia salvezza: senza di loro sarei ancora quel prete tutta teoria, senza cicatrici addosso, privo di credibilità. “Smettila di raccontare balle – mi disse un giorno uno dei nostri ragazzi – O ci racconti i tuoi casini, o qui dentro ti ridiamo in faccia”. La mia storia d’amore con Dio, il mio sacerdozio, gli esperti in materia direbbero che è una “situazione irregolare”. Io ci tolgo pure le virgolette: è stata irregolare, non mi vergogno a dirlo. Ma senza quell’irregolarità non avrei mai capito cos’è questa benedetta misericordia. Lavinia non è stata un errore, è una benedizione: con i giusti strumenti, Dio ricicla il peccato come i mafiosi riciclano denaro sporco».

L’immagine della “sedia” nella quale si siede don Juliàn è una “sedia che scotta”?

«Gliel’ho chiesto anch’io a Mika, una sera. Mi ha risposto: “Prova a sederti, poi mi dirai se scotta o meno” Senza volere essere assolutamente volgare, mi sono ustionato il sedere. Si può anche evitare, comunque, di sedersi: basta accontentarsi di conoscere quello che già si pensa di conoscere. Senza sentire l’altra campana. Come dicono i miei ragazzi in carcere, però, “bisogna sempre ascoltare tutte e due le campane: siamo tutti dei cattivi in una storia raccontata male”».

Detto da una che non frequenta da tempo la Chiesa: l’omelia di don Julian nel giorno della Prima Comunione dei bambini di Val Orino mi ha fatto piangere da quanto è delicata.

«Non fatico a crederle: ho pianto anch’io scrivendola! Mentre, dal pubblico, guardavo don Julian. Mentre, dall’altare, guardavo il volto di (don) Giacomo. In quel capitolo ci sono dentro quasi vent’anni di sacerdozio, tra mistero, angoscia, tribolazione e gratitudine. Non ha nulla di eccezionale, però: il Vangelo è una storia che liscia la pelle, costringendo il prete a mettere in gioco la sua umanità. Don Julian le sue omelia le prepara in ginocchio, pregando, specchiando la sua storia alla luce ustionante del Vangelo. In caso contrario, sintetizzarle è facilissimo: il bla-bla-bla del bla-bla-bla. Con annessa pretesa che la gente, ovviamente, stia a sentire i nostri bla-bla-bla».

Lei ha un amico argentino famoso. C’entra qualcosa con Mika?

«Sono furbi uguali, anche molto ospitali! Non saprei dirle se si conoscono personalmente loro due (ride!). Di certo a Papa Francesco non servirà leggere il romanzo: lui è il ghostwriter di un Dio che, come con me e Lavinia, dimostra di avere una mira da cecchino. Non posso che amarlo un “amico” così: nessuno mi ha mai amato così follemente quand’ero ridotto come uno straccio. Gli devo tutto».

Un messaggio per Lavinia.

«Lo stesso che Giacomo e lei scrivono al loro bambino: “Qualunque cosa ti succeda, cerca di essere sempre una brava persona”».

Un’ultima domanda: con quell’Ostia “leccata” (una delle pagine più scioccanti del romanzo) non le pare d’avere azzardato un po’ troppo? Qualcuno potrebbe accusarla d’aver oltraggiato l’eucaristia.

«L’ho calcolato. Solo uno che – come scrive il mio Charles Pèguy – non ha mai sperimentato che cosa significa che quando Dio morde un’anima non è poi disposto a mollarla così facilmente, potrà accusarmi di sacrilegio. Ai peccatori il viaggio di quell’Ostia è noto da tempo: lei non immagina le manovre spericolate di Dio quando c’è da salvare un’anima. Mi verrebbe d’augurarlo anche a lei, se solo sapessi che non procura un male impossibile poi da dimenticare».

Alla fine?

«Alla fine è sempre all’improvviso».

Mi stringe la mano, mi offre un caffè. Continuiamo a parlare senza carta e penna. Mi confida ciò che avevo già capito: vederlo asciugarsi qualche lacrima, però, non fa altro che aumentare la mia stima verso di lui. E capisco meglio perchè tutta quella gente lo segue agli incontri, nei programmi tv, nei suoi libri.
Quando lo riaccompagno in carcere, penso a quanto dev’essere difficile per uno così gestire cuore e testa senza dare di matto. Penso a Lavinia, Juliàn, a Giacomo. Non ci capisco granchè, ma capisco che hanno ragione loro tre a dire che alla fine, comunque vada, è sempre all’improvviso.

(Beatrice S.)

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2 risposte

  1. Don Marco mi stupisce ogni volta per la sua … Verità reale,concreta che tutti anche coloro che frequentano poco la Chiesa… diciamo tradizionale percepiscono e apprezzano.

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