Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

In questi giorni, celebriamo, in tutto il mondo, la festa del Corpus Domini. È bello pensare che, da ogni altare (che sia di pregiato marmo oppure un semplice intreccio di sassi, in un campo scout, oppure, ancora un tavolo fatto di bambù, nel cuore dell’Africa), si leva, come ogni volta che la comunità si riunisce il grazie della Chiesa. Perché questo è il significato della parola, di origine greca, Eucaristia. Rendimento di grazie.
Ecco quello che celebriamo. Non noi stessi, non le nostre vite, non le nostre richieste, non le nostre magagne ed imperfezioni. È gratitudine quella che è chiamata a salire da ogni altare del mondo, durante le celebrazioni eucaristiche. Perché, nonostante tutte le possibile storture, è vero che «c’è del buono, in questo mondo» (Tolkien). E se tanto resta ancora da fare, forse è perché noi iniziamo a darci a rimboccarci le maniche: a partire da noi stessi, dal muso da togliere al mattino appena alzati, al sorriso da offrire in metropolitana a chi incrociamo, andando a scuola, al lavoro, a fare commissioni.
Festeggiamo il corpo ed il sangue di Cristo. In un mondo ormai quasi asettico e sterile, è più faticoso comprendere la simbologia, oltre il segno che vivono in questi termini. Sicuramente, il riferimento è alla Passione di Cristo, in cui, novello Ettore, offrì liberamente il proprio corpo perché ne fosse fatto scempio, lasciandone sgorgare sangue, da ogni ferita. Eppure, se non ingrandiamo un po’ la prospettiva, rischia di sfuggire il senso complessivo di tutto ciò.
Anzitutto, è bene partire dalla simbologia legata al sangue. Per gli antichi, il sangue era vita: quasi del tutto ignari della modalità in cui esso era presente nel corpo, erano però abituati a vederlo sgorgare e avevano capito sicuramente di quanto fosse importante fermare un’emorragia ed evitare le infezioni derivate da ferite da arma da taglio (basti ricordare che, prima di Fleming, le infezioni erano probabilmente la principale causa di morte, soprattutto in guerra). Coperto di sangue era il bimbo appena nato. Lo stesso ciclo femminile ricorda la fertilità e, consequenzialmente, la possibilità di dare la vita. Ecco perché i popoli antichi, e lo stesso popolo ebraico (Es 24, 3 – 8), offrivano in sacrifico il sangue degli animali per ingraziarsi la divinità. Ed ecco anche perché il sangue è così presente nell’esperienza di Cristo, ancora prima della Passione: Egli dà la vita, prima ancora di essa, nel suo scegliere di incarnarsi e donarsi quindi all’umanità. E continua a farlo, nella garanzia costante della propria presenza, all’interno della Chiesa.
Il corpo di Cristo non causa minori problemi, anzi. Innanzitutto poiché corpo, esso, da subito, creò problemi. Come poteva Dio avere corpo? Il corpo possiede intrinseche limitazioni. Come poteva la sua infinità d’essere racchiusa nel ventre d’una giovane? Ecco i primi problemi che pone in essere l’incarnazione. Che non si sono certo placati, alla morte di Cristo. Alla notizia che i cristiani si cibassero del corpo e del sangue di Cristo, ecco che furono tacciati, conseguentemente, di cannibalismo. Eppure, il corpo di Cristo dice anche qualcosa di noi. Innanzitutto, che il corpo è bello e anche utile. Dice qualcosa di noi, al di là di ogni possibile imperfezione, su cui non dobbiamo focalizzarci, mentre è bene che impariamo a valorizzare ogni nostra possibilità. Spesso, diamo per scontato ciò che sfruttiamo ogni giorno e perdiamo il sorriso per cose di poca importanza. Paradossalmente, è proprio la mancanza di opportunità a cui siamo ormai avvezzi, che ce ne fa riscoprire la bellezza.
Quello che i nostri occhi vedono sull’altare è un’ostia candida, di frumento non lievitato. Quello che guardiamo, il più delle volte, solo da lontano: è un calice che intuiamo contenere del vino dolce, mescolato con acqua, segno di quanto accade quando la lancia colpì il costato di Cristo (sgorgarono sangue e acqua, come attesta Gv 19, 35). San Tommaso sottolinea che la reale presenza di Cristo, nel sacramento dell’altare, «non può essere conosciuta dai sensi, ma solo dalla fede» (ST, Questione 75). È curioso notare come, in seguito al motivo della perfezione della “seconda legge”, l’Aquinate citi, a sostegno di tale tesi, l’Etica Aristotelica, secondo cui “gli amici vivano assieme”. Quasi ad evidenziare che il principale motivo della presenza reale risieda proprio nell’amicizia reale di Cristo.

La lettura dell’epistola dell’Apostolo (Eb 9,11-15) evidenzia come Cristo sia sommo sacerdote, cioè Capo della Chiesa, di cui ciascuno, ognuno col proprio ruolo, è chiamato ad essere collaboratore. Ricordando, del resto, come, nel Vangelo, il Maestro sottolinei come gli incarichi, per il Regno, non debbano essere motivo di (vana)gloria, bensì, anzitutto, servizio e responsabilità, nella condivisione dei propri talenti (vd. Mt 25, 14-30 e Mc 9,33-34). Anche San Pietro, nella sua lettera (1Pt 2, 5), chiama i credenti «pietre vive», in virtù della metafora dell’edificio spirituale, , di cui lo stesso Cristo è chiamato «pietra angolare» (Mc 12,10). Sulla base di ciò, a buon diritto, la chiesa va considerata “corpo di Cristo”, chiamata ad essere nel mondo prolungamento dell’opera del Maestro.

“Farò la Pasqua da te” (Mt 26,18), dice Gesù, a ciascuno di noi: è l’invito di Dio alla convivialità, con noi e tra di noi. È nell’essere comunità che si manifesta, nel senso più profondo, la comunione di Dio con ogni uomo. Anche quello che ci sta un po’ antipatico, che è un po’ logorroico, un po’ troppo esuberante, eogcentrico od eccentrico. Perché, in fondo, agli occhi di qualcun altro, questi potrebbe pur dire lo stesso di noi. L’amore di Dio, invece, non fa figli e figliastri, ma riconosce in ciascuno, il desiderio d’amare e d’essere amato, al di là di maschere e finzioni. Basti pensare alla famosa icona di Rublev, che, ritraendo la Trinità, la mostra ad un banchetto, ma la prospettiva del dipinto si apre verso l’osservatore, quasi invitandolo, non solo ad assistere, ma a partecipare.
È proprio nel periodo del Medioevo, quell’oscuro tempo che ci ha regalato menti brillanti come il citato san Tommaso (che, per altro, aveva una particolare mistica spiritualità proprio per l’Eucaristia), che prende avvio l’adorazione eucaristica. Alla luce della reale presenza di Cristo, nel sacramento eucaristico, sorge spontanea la domanda sul perché, oltre a nutrirsene, non possa divenire oggetto di adorazione, ciò di preghiera e di mistico, intimo contatto tra il fedele e l’ostia consacrata, che contiene, integralmente, l’anima, l’umanità e la divinità del proprio Signore. Memore di quel testamento di Cristo (“Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” – Mt 28,20), essa celebra la Presenza, nella storia dell’umanità, di un Dio più ostinato del cuore dell’uomo, capace di nascondersi sotto le spoglie del pane e del vino, pur di non abbandonare le proprie creature in balia della lotta contro Satana che, con pertinacia, cerca, instancabilmente, di guadagnarne il monopolio.

Vedi: letture ambrosiane per la Solennità del Corpus Domini


Fonte immagine: Satan vs Jesus

Fonti: icona di Rublev, approfondimento di Aleteia
“Dalla Trinità all’Eucaristia”, Daniel Ange, ed. Ancora 1984
“Somma Teologica”, volume XXVIII, S. Tommaso d’Aquino, ed. Salani, 1971

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