Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

ostia
I suoi nemici vinsero una battaglia: sequestrarono il corpo di quell’Uomo così meditabondo d’apparire fastidioso agli intellettualoidi avversari: «Allora si fecero avanti, misero le mani addosso a Gesù, lo arrestarono» (Mt 26,50). L’avversario vinse una battaglia, ma perdette la guerra intera: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Pensarono, dunque, d’averlo ingabbiato: ciò che presero fu solo la materia dell’Uomo. Lui, trattato d’intelligenza, si era andato a nascondere nei petti agitati degli amici: diventarono i primi tabernacoli, anche i primi sacerdoti dell’umanità. Lo arrestarono, non lo arrestarono affatto. Più che furbo, fu generoso: si fece pasto per le gole amiche, si diede in pasto agli amici.
Scansò di darsi in pasto ai cani avversari. Troppo intelligente per fregarlo.
Iniziò a scandalizzare a Betlemme: immaginare, anche solo un istante, che il Dio inaccessibile diventasse uomo, era poco meno che una bestemmia. Lo fece: si fece uomo, chiedendo ad una (ma)donna di collaborare. Il Verbo parlò e tutto fu fatto, Maria parlò e il Verbo si fece carne. Carne, Pane: è Dio buono come il pane. Ciò che ebbe inizio a Betlemme – “Pare quasi insulso un Dio così: ha così poca stima di sè che diventa uomo”, andava dicendo Satana – scandalizzò il doppio a Gerusalemme, nella stanza di un cenacolo: non solo si fece uomo di carne, ma li invitò tutti a masticarla perché non patissero la fame. Se non parve scandalo, ci mancò pochissimo: dopo il Dio di carne, pure di pane: per tutti i denti. Attorno alla tavola – luogo di confidenze, di trastullo e di condivisione – sbocciò il sospetto che fece di quell’Uomo un’àncora di salvataggio per tutti i disperati della storia «Non sono perduto nel mondo – scriveva Antoine de Saint-Exupéry nella sua bozza di Lettre à un otrage -, sono di questa tavola, attorno alla quale abbiamo comunicato al di sopra delle parole in una sostanza segreta e preziosa». Cristo, dunque, non venne nel mondo per liberare il mondo dal peccato: è troppo piccolo, il peccato più mastodontico, per giustificare una così grande discesa-in-campo di Dio. Venne per affaccendarsi in tutt’altra faccenda: per fare una seminagione di Cielo in terra, per piantare Iddio dentro l’uomo, per acciuffare il Tutto e incalmarlo nel niente, che è il poco dell’umano. Lo fece con l’arnese smunto dell’amore, folle e bambino. Amore di madre, di amante. Quelle che, toccando il corpo bambino o dell’amato, gli hanno detto “Ti mangerei di baci”. Gli hanno segnato con i denti il corpo come apice massimo di godimento. Questo hanno fatto i discepoli in quella sera di sensi eccitati, accesi. Han fatto quello che Lui chiese loro: “La vostra compagnia non mi basta più, con le vostre carezze il mio corpo ha freddo, i vostri baci non mi saziano più. Prendetemi, poi masticatemi: mordetemi, rigate con i vostri denti il mio corpo diviso. Condiviso”.
Sfrattato – «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11) -, lo cacciarono dalla porta d’ingresso della casa, quella che Lui stesso aveva costruito per il mondo. Siccome li amava per davvero, rientrò dalla finestra, dal corpo degli amici, che è la finestra dell’amore: «Prendete(mi) e mangiate(mi)». Il fatto fu chiaro a tutti: il Dio sfrattato stava cercando casa per tornare ad abitare nel paese degli uomini. “Prendere” è verbo manuale, manovra di aggancio, una sorta di presa di possesso: il Padrone chiede l’affitto all’operaio, il padre chiede al figlio d’essergli genitore. Il Creatore alla creatura: “Stringi me, io stringo te. Stringiamoci a coorte, siamo pronti alla morte!”. Dice il prete nell’atto di dare la comunione: «Il corpo di Cristo». “Amen” rispondono mugugnando, alcuni credendo. Capissimo per davvero la portata di quel gesto, l’unica risposta a così grande agguato dei sensi sarebbe di rispondere: “Che corpo, Cristo!” E’ così grande l’amore, che nessuno se l’immaginava. Scriveva Virginia Wolff: «Uno non può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non ha mangiato bene».
Senza l’eucaristia, i primi cristiani non riuscivano a vivere. Mica esageravano.

(da Il Sussidiario, 2 giugno 2018)

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi (Marco 14,12-16.22-26).

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