Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Com’è consuetudine del tempo che segue la Pasqua, la Prima lettura è tratta dal libro degli Atti degli apostoli, che raccoglie i principali fatti immediatamente successivi alla dipartita di Gesù, occorsi agli apostoli e alle nascenti comunità cristiane.
Nel brano offertoci dalla liturgia, San Pietro e San Giovanni, non possedendo ricchezze, di fronte ad un povero storpio che chiede l’elemosina dinanzi alla porta “bella” del tempio di Gerusalemme, lo guariscono, nel nome di Gesù Cristo. Essendo nota a tutti la sua condizione, la guarigione di quello zoppo provoca enorme scalpore (anche perché, dopo la guarigione, quest’ultimo non si comporta certo in modo discreto, anzi attira l’attenzione su di sé, nel tempio) e le autorità, informate, decidono di interrogare Pietro ed alcuni suoi compagni. Il capo degli apostoli, come prima puntualizzazione, ci tiene a sottolineare che non si tratta dell’espressione di un potere personale, suo o degli apostoli. Non è opera loro la guarigione, di cui si sono fatti, unicamente, un tramite nei riguardi della potenza di Dio:

«Non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati»(At 4,12).

Chi parla così è San Pietro. Lo stesso che, di fronte a dei servi, aveva “calato le braghe” e, preso da paura, aveva negato l’innegabile: «Gesù Cristo, chi?». Gesù Cristo, “Via, Verità e Vita” (Gv 14), “unico Nome sotto il Cielo, nel quale ogni ginocchio si pieghi” (Filippesi 2, 9). Gesù Cristo, Lui, l’Eternamente Presente, infinitamente paziente, ha atteso. Per riconfermare Pietro a capo degli apostoli, affinché confermasse i propri fratelli, nella fede in Gesù Cristo.

L’ Epistola ci invita alla riscoperta del Battesimo, tramite il quale siamo innestati nella vita stessa di Cristo: «con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti» (Col 2,12).
Visitare un antico battistero ci aiuterebbe enormemente a penetrare il rito ed il suo stretto legame con il triduo Pasquale, che, ora, invece, rischia di non essere così immediato. Siamo abituati a vedere bambini, che ricevono qualche goccia d’acqua santa sul capo. Una volta, c’erano grandi vasche battesimali, in cui i catecumeni entravano da un lato, rivivendo la morte di Cristo, e ne uscivano dal lato opposto, quasi a simulare un vero e proprio “itinerario di Resurrezione”, sulle orme di Gesù.
Al di là dell’evoluzione del rito, il nostro Battesimo ci ha inserito non solo nella comunità dei credenti, ma ci ha resi “figli nel Figlio”, prendendo significato proprio dalla Passione e Resurrezione, che abbiamo appena celebrato solennemente: Paolo richiama la Pasqua come evento liberante per l’uomo. Di fronte a Cristo che “si è fatto peccato” nessuna colpa assume più i connotati dell’inemendabilità. La disperazione ha perso diritto di cittadinanza, per il cristiano, perché Cristo rappresenta il compimento delle promesse antiche. L’attesa messianica si è compiuta: resosi fratello degli uomini, il Figlio di Dio, pur senza colpe, si è assunto le nostre, affinché noi potessimo sperimentare la libertà che viene da un perdono senza limiti e ci apre ad una novità di vita, ora finalmente e pienamente possibile.

Il Vangelo è particolarmente vicino al nostro sentire: nello stesso giorno della Resurrezione (quello della corsa al sepolcro, per meravigliarsi e farsi riempire il gioia, ma solo per un momento), ci mostra gli apostoli chiusi in casa «per timore dei Giudei» (Gv 20,19). Pavidi, timorosi, smarriti, incapaci di prendere una risoluzione. Gli avvenimenti degli ultimi giorni li hanno scombussolati.
Davvero è risorto? Hanno ragione le donne? E se, invece, si trattasse, dell’ultimo sfregio dei Giudei, che ne hanno vilipeso il cadavere? Difficile metabolizzare tutti gli avvenimenti di quei giorni. Impossibile non ripensare a quando il Maestro era con loro: pareva avere una risposta ad ogni dubbio, perplessità; nessuna domanda lo aveva mai messo in difficoltà, neppure quelle avanzate da scribi e farisei.
È in un momento come questo (ricco di rimpianto, con qualche tensione non del tutto sopita, tra le colpe dette e non dette di ciascuno, nel dubbio atroce di non aver avuto il coraggio di perseverare, fino alla fine, al Suo fianco) che compare il Protagonista. Le sue parole sono poche, brevi: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» e «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
Un presenza pacificante, che non chiede conto degli errori, delle mancanze, delle stanchezze, ma che riconsegna una fiducia nuova, per ricominciare. Più delle parole, poté la Presenza e quella possibilità di vedere, in quelle ferite divenute familiare il segno dell’amore che travalica i confini dell’umano. E ci chiede di fare altrettanto.
«Mio Signore e mio Dio!»: è il grido in cui prorompe Tommaso. Come non ritrovarci nel suo imbarazzo, nella sua fede un po’ goffa e ostinatamente razionale? Perché noi, in fondo, come lui, vogliamo credere, davvero, ma secondo le nostre strade, non le Sue: preferiremmo strade già battute, collaudate, non troppo distanti dalla nostra quotidianità. Ci fa bene vedere che Gesù non si spazientisce di fronte alla richiesta di Tommaso: non solo l’accoglie, ma la previene, quasi a vederci un tentativo di capire meglio e non il dubbio pervicace dei “professionisti  dell’incertezza”. In quel suo sguardo smarrito c’è tutto il nostro smarrimento, quando, di fronte a qualcosa che oltrepassa la nostra comprensione, non siamo in grado di guardare con gli occhi della fede che vedono la spiga nel chicco di grano, ma ci ostiniamo – piuttosto – ad analizzare il chicco in ogni dettaglio, convinti di trovare, in quel modo, risposte alle nostre domande. Eppure, nella Sua infinita tenerezza, nostro Signore pare apprezzare anche i nostri pavidi tentativi di comprendere, per quanto goffi e fuori bersaglio possano essere.

Di fronte al dilagare del Male nel mondo, in particolare nei confronti dei cristiani (non solo Sri Lanka, ma anche Nigeria e persino Roma, dove un uomo di origine georgiana è stato aggredito per via della croce che indossava al collo), non possiamo non lasciarci interrogare dalla Scrittura.
Potremmo essere presi da paura, smarrimento, di fronte alle cifre inquietanti che, una volta di più ci dicono che l’Amore non è amato. I seguaci di Cristo sono, ancora oggi, quelli che muoiono a causa della propria fede, come aveva preannunciato Gesù stesso: «Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi!» (Gv 15,18).
Pietro ci rinfranca, anche oggi, dai nostri timori, con quelle stesse parole semplici che rivolse alle autorità giudaiche di allora:

«Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,19-20)

Potremo essere privati di tutto, ma, essendo solo in Cristo la vera libertà dei figli di Dio, solo rimanendo “nel Suo amore”, potremo “portare frutto” (Gv 15) , nonostante i rischi che questa scelta potrà comportare.

Rif: letture festive ambrosiane nella II Domenica di Pasqua (della Divina Misericordia), anno C – At 4,8-24; Sal 117; Col 2,8-15; Gv 20,19-31


Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove
Fonte immagine: pinimg

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