Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Tamberi e Barshim 1024x683

Chiaramente l’oro è d’oro, non si discute: e loro due, regolamento alla mano, sono d’oro. Loro sono l’oro, dunque. Com’è fuori discussione il tanto-di-cappello da togliersi di fronte al gesto atletico di Gianmarco Tamberi e di Mutaz Essa Barshim: non è da tutti saper estrarre dal cilindro di un imprevisto, di un incidente, gli ingredienti giusti per miscelare una vittoria. Una vittoria, la loro, il cui valore aumenta pensando a quell’anno in più d’attesa che, nella vita ordinaria dell’atleta, non è solo un anno come tutti gli altri ma è ulteriore ansia, i programmi da ricalibrare, le tabelle da riscrivere. Echevittoria, dunque! Io lo applaudo Tamberi, pur non standomi affatto simpatico per quelle affermazioni gratuite formulate sul conto di Alex Schwazer a Rio 2016. Ma una vittoria così, oggi, va applaudita, il suo gesto atletico va contemplato, la magia è servita direttamente sugli schermi. Chapeau, anche da chi, nel cuore, continuerà a tifare per sempre Alex Schwazer. Da chi, odiando il doping, non si convincerà mai che un errore, fosse anche il più becero, possa superare l’uomo che lo compie. La marcia (sfiancante) di Schwazer, anche nei tribunali, resterà la metafora più attendibile di ciò che significa continuare a vivere. Vivere col magone in gola di chi, ritenuto colpevole anzitempo, si vede costretto a dimostrare l’innocenza. Non il contrario – “innocente fino a prova contraria” – come sarebbe retto fosse. Non sempre , però, la vita è giusta. Anche con chi è stato ingiusto.
Premesso questo, quest’oro olimpico del salto in alto – oro ex aequo – non è per niente bello. E’ forse un oltraggio all’epica della sfida. Non è nemmeno affascinante e forse, sotto-sotto, toglie un po’ della sua magia pure a chi lo indossa, anche se non l’ammetterà mai. Perché di campione, all’Olimpiade, ce n’è uno solo. E il campione-olimpico è un’immagine che per quattro anni resta impressa nella memoria collettiva. “È il regolamento, vecchio mio!” mi dirà qualcuno (*). Può essere vero, ma l’immagine di due atleti che si mettono d’accordo per evitare lo spareggio è quanto di più anti-agonistico esista nello sport. Sarebbe come se il capitano della Nazionale italiana di calcio, finiti i tempi supplementari, si fosse messo d’accordo con quello inglese per evitare i calci di rigore, finendo per fare di due nazioni le vincitrici dell’Europeo. Invece hanno dovuto affrontare la lotteria dei rigori per eleggere un solo vincitore: è una lotteria ingiusta, feroce, bastarda, cinica, ma è pur sempre l’unica chance per riuscire a chiudere una sfida. Lo spareggio, nel caso della disciplina del salto in alto, sarebbe valso lo stesso: avanti ad oltranza, il primo a sbagliare sarebbe stato d’argento. “Ma non vedi che l’hanno fatto in nome dell’amicizia? Son grandi amici!”, controbatterà qualcuno. La apprezzo l’amicizia, leggermente mi commuove, ne sponsorizzo la continuità. Però, signori, lo sport è un’altra cosa da un festival dell’amicizia cristiana: lo sport è sport, è combattimento, e in un combattimento più che l’amicizia conta la correttezza. E’ al campo, non ai sentimenti, che si deve affidare l’ultima parola, altrimenti tutte le variabili hanno diritto d’essere ascoltate prima di chiudere una faccenda. Perché una medaglia può essere non solo il premio di chi è più forte nel fisico, ma anche di chi, sotto la pressione del chi-sbaglia-perde, sa mantenersi concentrato, non perdere la testa e l’attenzione, sa estrarre dal suo fisico quel po’ di più che fa la differenza. Io, l’amicizia sportiva, l’avrei apprezzata maggiormente sul podio: il secondo d’argento che si complimenta con il primo d’oro, e viceversa. Perché, a essere sinceri, spartire a metà una conquista è non sentirla totalmente propria per nessuno dei due, pur meritandosela entrambi. Piaccia o non piaccia, è così, alla fine della fiera.
Questi finali, anche se concessi dal regolamento (è la prima volta in 125 anni di Olimpiade che accade) lasciamoli alle partitelle dell’oratorio, dove per la voglia di non dispiacere a nessuno si finisce sempre per pareggiare. Lo sport è, invece, tutta un’altra cosa: è accettarne l’ingiusta giustizia, sottoporsi alla lotteria dello sfinimento, accettare l’uno contro tutti. Sottoporsi allo stremo pur di portare a casa la vittoria, perchè non sempre la democrazia-cristiana del “dovere fatto a dovere” basta per trasformarsi in superiorità sportiva. Adesso, invece, per tre anni, la disciplina del salto vivrà uno stato di stand-by: “Chi è più il forte tra Tamberi e Barshim?” continuerà a chiedersi la gente, gli addetti ai lavori. E ognuno avrà ragione. È anche per questo che esiste la competizione sportiva: per non lasciare delle domande in sospeso. Ed è per questo che, dopo quattro anni, l’Olimpiade ritorna: per riaggiornare le risposte dell’edizione precedente. Onore a Tamberi (terza ammissione di congratulazioni, dovute), onore a Barshim. Rimangano pure (grandi) amici, ma non tolgano allo sport il lusso della competizione, il verdetto della strada. Coppi e Bartali,  in un ex aequo sportivo, è una cosa che li farebbe rigirare nelle loro tombe. Pur apprezzandosi vicendevolmente.


(*) Senza accordo i due atleti in parità avrebbero dovuto tentare la misura precedente e, in caso di errore, tornare a ritroso finché uno non avesse prevalso sull’altro.

tuttodoro

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