Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Alex Schwazer

Mentre sto scrivendo, sui social rimbalza la notizia, che ha nell’incredibile, ma non è del tutto stupefacente, specialmente, dopo i tempi fatti registrare durante le qualificazioni, negli ultimi giorni: per la prima volta nella storia, l’uomo più veloce del mondo è italiano. Oro nei 100 m, alle Olimpiadi di Tokyo, per Marcell Jacobs, che, con un tempo di 9’80”, fa la storia, non solo personale, ma di un’intera nazionale e dell’atletica mondiale. Un tempo pazzesco e un giorno da segnare sul calendario, per gli sportivi di tutti i tempi.
Non è, tuttavia, l’unica emozione che ci ha regalato questa Olimpiade.
Nonostante il succedersi, un po’ in sordina, di tanti avvenimenti sportivi (che, a causa delle restrizioni anti-Covid, hanno rischiato di silenziare anche quel poco spazio che, finalmente, almeno ogni quattro anni, si vedono tributare la fatica l’impegno, la passione ed i sacrifici degli atleti dei cosiddetti “sport minori), sono state molte, per tutti i gusti e in tutte le discipline, le emozioni che questa Olimpiade lontana e con minimo pubblico ci ha regalato.
Innanzitutto, quasi in contemporanea, Tamberi ha conquistato un oro nel salto in alto, ex aequo con Barshim (Qatar). E i due sono stati protagonisti di un commovente siparietto. Entrambi sono reduci da un infortunio simile. Il commissario si avvicina e spiega loro, dopo che entrambi hanno sbagliato il salto da 2m39, che possono continuare con il jump-off, per determinare il vincitore. Il qatariota chiede solo: “Possiamo avere due ori?”. Il commissario spiega, allora, che è possibile, se entrambi sono concordi. L’asiatico si avvicina all’europeo: non c’è bisogno di altre parole. I due si accordano in un abbraccio di gioia!

 

Diversi sono stati poi i riconoscimenti nel tiro con l’arco, nel giavellotto, nella spada e nel fioretto, tanto da far notare, con una battuta: “Se oggi scoppia una guerra medievale, siamo a posto!” .Anche nel catamarano, Tita e Banti sono in finale, con argento assicurato e possibilità di oro.
Per completare i medagliati con la materia più nobile al collo, non è possibile evitare di citare Valentina Rodini e Federica Cesarini  (oro femminile nel canottaggio, pesi leggeri) e Vito Dell’Aquila (oro maschile nel taekwondo, peso inferiore a 58 kg).
Seguono, con l’argento: Luigi Samele (scherma, sciabola), la batteria maschile del nuoto con Alessandro Miressi, Thomas Ceccon, Lorenzo Zazzeri e Manuel Frigo (nuoto, staffetta 4×100, stile libero), Diana Bacosi (tiro a volo, skeet), Daniele Garozzo (scherma, fioretto), Giorgia Bordignon (sollevamento pesi, 64 kg), Aldo Montano, Luca Curatoli, Enrico Berrè e Gigi Samele (sciabola a squadre), Gregorio Paltrinieri (nuoto, 800 stile libero), per finire con Mauro Nespoli (arco).
Oltre a diversi risultati importanti nel nuoto, nella spada e nel fioretto femminili a squadre e nel judo, un bronzo da ricordare è poi quello di Irma Testa (boxe femminile, pesi piuma), perché, in questa specialità, nessuna italiana era andata a podio, finora.

La vicenda di Federica Pellegrini ci ricorda che nessuno è intramontabile ma, al contempo, che, nello sport come nella vita, è fondamentale appassionarsi in quello che si fa. Si può gareggiare con la consapevolezza di non puntare alla medaglia ed essere felici: perché ognuno ha i propri obiettivi, la propria situazione, la propria età e la propria condizione atletica. E aver centrato la finale per la quinta volta nella propria carriera, per altro con l’ultima spostata avanti di un anno, rispetto alle previsioni, è decisamente un traguardo di tutto rispetto.
Continuando a parlare di “grandi vecchi”, indimenticabile è poi Aldo Montano. Con una carriera ragguardevole alle spalle, arriva a Tokyo come “panchinaro di lusso” e “uomo-squadra” per aiutare i più giovani, si dimostra determinante per la conquista dell’argento nella sciabola maschile a squadre. Dimostrazione che, ormai, anche a 42 anni, se la testa è sulle spalle e l’allenamento è accurato, possono ancora essere raggiunti risultati fino a poco tempo fa impensabili.

Insomma, più in generale, queste olimpiadi sono state motivo per “aprire una finestra” sullo sport, in particolar modo in quei mondi che, per vari motivi, sono meno sotto le luci della ribalta, si guadagnano meno prime pagine e rischiano di rimanere un po’ dimenticati, come la polvere sotto i nostri tappeti.
E di polvere, spesso, questi atleti ne “mangiano” davvero tanta. Pensiamo, ad esempio, alle gare di atletica di fondo, come i 10000 metri. Sono le gare più “lunghe” e sono considerate meno prestigiose delle gare di velocità assoluta (100 – 200 – 400 metri). Forse hanno meno prestigio, richiedono un quantitativo di tempo maggiore ad ogni batteria, ma, a livello mentale richiedono un grandissimo controllo di sé e del ritmo di gara. Pensare infatti di avere una media di 16’’ sui 100 metri, ma non una volta sola, bensì continuando su quel ritmo per 100 volte, in ogni gara, è qualcosa di veramente eccezionale.

 

Il nostro sito vive, da tempo, la realtà del carcere, che accompagna le vite di tanti fratelli, detenuti per un errore (magari commesso in gioventù, per inesperienza, condizionati dal contesto sociale e familiare), che scontano la propria colpa, ma non solo: provano a dimostrare – anzitutto a se stessi – che vale – ancora – la pena scommettere su di loro. Su ciascuno di loro. Perché non esiste persona così colpevole da non meritare una seconda possibilità verso il bene.
Ecco perché è stata una reazione, spontanea e naturale, guardare con affetto e simpatia alla vicenda di Alex Schwazer, che, intervistato in questi giorni dalla Gazzetta  , ha confessato di non guardare le Olimpiadi (“per non farsi del male”), ad eccezione dei 10000 di Yeman Crippa, di cui è tifoso e di voler ricorrere alla corte europea.

Sì, certo, lo so. Qualcuno dice che sarebbe stato meglio che Schwazer non fosse mai risultato positivo.

In pura via teoretica, forse sì. Come sarebbe stato meglio, per Pietro, non aver rinnegato Cristo. O, per Paolo, non aver perseguitato la Sua Chiesa. Ma, nella pratica, è stato proprio attraverso la fragilità ed il peccato, che Cristo ha parlato ai cuori di Pietro e Paolo, restituendoceli come primo Papa e come Apostolo delle Genti.
Al di là dei risultati sportivi (che avrebbero potuto esserci oppure no; come in tutte le competizioni con gara secca, la performance è un’incognita infinita, che può rendere merito ad anni di duro sacrificio, oppure vanificarli nella più banale delle cadute), si tratta, senz’altro, di un’occasione persa.

A livello umano e sociale. Persino, a livello spirituale. È l’occasione di una mancata risurrezione, di cui c’erano tutti i presupposti.
È possibile risorgere. Passando dalla morte. In questo caso, sociale e sportiva. È possibile non lasciare al male, all’umiliazione, all’orgoglio, all’imbroglio l’ultima parola.
Alex ha voluto opporsi. Dalla sua, ha trovato Sandro Donati, che lo ha supportato, oltre che allenato.

Vinceranno la causa, oppure no? Molti elementi sono dalla loro parte. La realtà è che, però, purtroppo, un atleta che ha pagato per i propri sbagli è stato un uomo cui non è stata data la possibilità di poter dimostrare di essere più dei propri sbagli.

Caro Alex, lo confesso: durante queste olimpiadi, non ho fatto che pensarti e ringraziarti perché la tua storia ci ha insegnato tanto. Come insegnano tanto tutte quelle storie di dis-grazia, misericordia e risurrezione.
Per questo, l’augurio è – anzitutto – che questo sia un monito, più ancora che sportivo, umano. Perché a nessuno sia tolta quest’opportunità. Quella di essere – sempre e comunque – un figlio e non un servo. Un figlio, che può sbagliare. Ma che ha – sempre – opportunità di ripagare agli errori commessi, una volta compreso il male compiuto.


Fonte immagine: biografie on line

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