Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Non bastano più il termometro e i primi incolonnamenti al casello di Venezia – Mestre per farci credere che sia estate. Forse quella è rimasta l’estate meteorologica: cioè il tempo in cui s’abbronza la pelle, si colorano i campi di grano, s’allarga lo sguardo su orizzonti sconosciuti. Ma a scandagliare tra le righe della quotidiana informazione, s’avvertono i geli dell’inverno, la malinconia delle sere nevose, il nervoso di fastidiose perturbazioni. Il suicidio di Camilla, 17 anni e una giovinezza in tasca. Il fratricidio di via Manara, ripresentazione evitabile della follia del Caino biblico. I fossati che inghiottono sempre più di frequente macchine, gioventù e attese. Silenzi agghiaccianti dopo il suono grave delle campane nella chiesa di Conselve e Candiana. Pochi giorni fa: d’altronde, lo rinfrescava spesso Rigoni Stern che la storia dovrebbe essere maestra di vita. Ma aggiungeva che tutto ciò è una speranza, non una certezza.

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Sopraggiungerà l’istante in cui al celebre memento mori di latina memoria – che ricordava la fine per non smarrire l’inedito dell’inizio – saremo obbligati affiggere il memento vivere di nuova necessità: azione di tutt’altra portata e caratura. Oltre che laboriosità. Anche se oggi queste storie, dalla faticosa lettura provvidenziale, sembrano ribadire con urgente veemenza che all’uomo non basta più solo vivere. Si fa clamorosamente incombente la questione dell’esistere. Per vivere basta poco: è un’occasione che trovi già pronta. E non importa sapere come è stata resa tale. Ce l’hai tra le mani: giocala. Ad esistere, invece, ci s’impiega una vita perché c’è un senso che da immettere nello scorrere delle stagioni, dei giorni, delle attese. Senza aver paura di raccontarci che "vivere è un mestiere duro, senza ferie è un lavoro oscuro, senza orario, senza salario all’intemperie di ogni  tempo" (C. Baglioni): ma è anche l’unica possibilità che tutti abbiamo per dissetare quell’agonismo salutare d’essere, almeno da qualche parte nella vita, capitani che manovrano le azioni. E non sempre e solo eterni gregari. E’ lacerante raschiare con le unghie alla ricerca di un perché che attutisca la nostra inquietudine di uomini. Perché il tutto accade quando il frigorifero è pieno. Gli armadi non si chiudono più per il guardaroba. Dei timbri sui passaporti s’è perso il conteggio. Rimane la tristezza sul volto dei veri educatori d’aver perso l’attimo in cui l’occhio, agganciato alla tristezza di uno sguardo, aveva forse emesso un grido d’aiuto. Un allarme. Un cenno di protesta esistenziale. Forse serviva di più, o forse stiamo smarrendo l’eleganza di una vita che, se giovane, chiede sempre maggiori sforzi e attenzioni per non essere sciupata. Suicidata. Accoltellata.
Apparentemente i giovani sono sempre al primo posto dei programmi: salvo poi scoprire che la priorità sta nelle gambe pelose o meno delle veline da sistemare, nel linguaggio che da politichese sconfina con quello triviale, nel menefreghismo assordante di chi al grido mortale dei giovani risponde con un scarno comunicato stampa. O una presenza d’ufficio: in primo banco.

Questo si chiama "principio di suicidio".
Ed è da denunciare all’Autorità competente della vita!

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