Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

p_spartitoSilenzio e parola sono due movimenti della stessa partitura, due voci di uno stesso coro, due strumenti che fanno parte di un unico complesso sonoro.
S’affiancano, s’accarezzano, si studiano, s’accalorano, si ritraggono, s’avvicinano. Nel tentativo, costante, di prendere il sopravvento. Solo di rado, s’accorgono di non poter fare a meno l’uno dell’altra, traendo vicendevolmente forza e valore, impeto e coraggio, durata e significato.
Una parola può lenire un dolore. Un’altra, può provocarlo o risvegliarlo. Basta anche meno: un tono, un momento, una circostanza sbagliata a far diventare sbagliata la stessa parola, in altre occasioni azzeccatissima.
D’altro canto, il silenzio, troppo spesso ridotto – semplicisticamente – come freddezza o distacco, di frequente rivela tutt’altro. Alle volte, il silenzio è sintomo di rispetto, stima e ammirazione. Altre volte, rappresenta il necessario distacco che segna il confine al mio egoismo e sancisce la libertà dell’altro. O, ancora, dietro uno sguardo velato di silenzio, si celano coccole di tenerezza inaudita.
Silenzio e parola fanno parte del nostro comunicare verbale, che è solo una delle innumerevoli forme di cui si serve il nostro corpo per far conoscere, a sé e al mondo esterno, sentimenti ed emozioni.

La loro inscindibile, seppure altalenante, unione rischia di essere messa in discussione. Le nuove tecnologie, basate sulla parola scritta sembrano lasciare poco spazio al silenzio (fra)inteso  nell’univoco significato di indifferenza o disattenzione. Quelle altre tecnologie, poi che (come le chat vocali) potrebbero (forse!) restituirgli valore, rischiano di relegarlo a disguido tecnico o ritardo nella ricezione del suono, inviato come pacchetto di dati.
Uno sguardo ci ha messi al mondo, uno sguardo ci ha ridato dignità e rimesso in piedi, uno sguardo ha acceso il desiderio. Eppure, a volte rischiamo di ardere invano, nel desiderio di uno sguardo che non riusciamo ad incontrare.
Il silenzio, nella sua affascinante e poliedrica girandola di significati, corre il rischio di non avere diritto di cittadinanza, in un mondo sempre indaffarato a trovare da fare, pur di occupare tempo, spazio e cervello, per evitare la fatica di domandarsi dove stia correndo e per quale motivo. Perché, se siamo onesti fino in fondo, dobbiamo ammettere che non è il tempo a mancare: per ciò che ci piace e ci fa comodo, il tempo lo troviamo sempre!
Scegliamo però di non fermarci ad interpretare il silenzio di un amico, alla ricerca del suo significato più profondo e vero (che potrebbe essere splendido e umanissimo motivo di crescita), preferendo – magari – una discussione informale, meno impegnativa e soprattutto meno emotivamente coinvolgente  con qualche semisconosciuto della rete.
Solo nella melodia che si crea tra parola e silenzio si può sviluppare una relazione, ma vorrei porre l’accento sul silenzio, perché, essendo più discreto, fa fatica ad essere valorizzato. E, alle volte, è proprio la mancanza di silenzio – e di attesa – che mettono in pericolo il vivere umano. Per troppa fretta, si rischia di far mancare respiro ai moti dell’anima, che non riescono a trovare il necessario intervallo di tempo che necessita il loro distendersi.

Il silenzio ha un fascino, che però è complicato: si sviluppa nell’incertezza (che dispiega nella sua evidenza) e richiede fatica, pazienza e impegno; non è mai di univoca interpretazione, e per questo esige altro silenzio, accompagnato da riflessione e – per chi crede – dalla preghiera. Eppure, nonostante l’innegabile difficoltà e dedizione richiesti, quella del silenzio si manifesta come la strada maestra e ineliminabile  per poter progredire nella comprensione dell’altro-da- me. Che, per essere amato davvero, nella sua imprescindibile unicità, chiede il duplice sforzo di essere penetrato nella sua alterità e accolto nella sua diversità.
È questo l’unico modo per poter amare l’altro esattamente com’è, senza pretesa di assoggettarlo ai nostri desideri e alle nostre voglie.
E solo il silenzio è capace di dischiuderci la porta d’ingresso sul mistero imponderabile dell’essere pienamente uomini: è come un battito di grancassa che pone ordine tra i fiati e gli strumenti a corda, evidenziando il giusto accento (cioè il valore) da dare ad ogni altro gesto occorso fino a quel momento.

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