Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

ospedaleL’elogio della creatività, dell’intraprendenza e del rischio. Anche il Vangelo – pungolo celeste – si schiera dalla parte dell’avventura. E non potrebbe essere altrimenti per un Libro che racconta la Storia di un’avventura. Dell’Avventura per eccellenza: quella di un Dio che si nasconde nell’umano per raddrizzarlo verso l’Eterno. Passeggiando per Praga, lo scrittore francese Camus varcò la soglia di una chiesa barocca e venne assalito da un’inquieta sensazione: “Il Dio che lì si adorava era quello che si teme e si onora, non quello che ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del mare e del sole. Da quel Dio l’uomo s’allontana” (“La morte felice”). E’ la sindrome del terzo servo (Mt 25,14-30), quello che ricevette dal padrone un solo talento. Uno: non nessuno. E uno è tanto, è troppo, è una possibilità smisurata e una responsabilità minacciosa per chi nel cuore nutre la nostalgia appassionata del mare aperto. I primi servi rischiano l’avventura, tentano l’investimento, s’azzardano il rischio. Il terzo è scrupoloso ma complessato, esatto ma pavido, timorato ma incapace dell’inedito. Per paura del padrone soffoca creatività, spontaneità, fantasia, inventiva, estro, genio, immaginazione e talento. Per obbediente timore è capace di soffocare la navigazione dell’esistenza in un’organizzazione impeccabile. Lo spazio aperto diventa un retrobottega, una buca nel terreno, un amore che fa paura. E il talento non si raddoppia, non si moltiplica, non produce frutto. Era convinzione proclamata di Gregorio di Nissa che i concetti creano idoli, mentre solo lo stupore crea qualcosa. Lo stupore dei primi due servi che, attratti dal fascino fiducioso del padrone, accendono l’esistenza e la fanno correre su binari di fantasia, di novità, di colore. Hanno tra le mani una Parola e la fanno vibrare, danzare, correre. Accettano di spegnersi per accendere. Di spostarsi per far correre. Di accelerare per non perdersi.
O, forse, il dramma del terzo servo era semplicemente quello di coltivare un’idea sbagliata di Dio. Un Dio opprimente, inflessibile, intrattabile, disumano, ferreo, irascibile, scortese: “So che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso: per paura andai a nascondere il talento sotto terra”. Con un Dio così l’unica preoccupazione era quella di farsi trovare a posto, d’essere impeccabile, formalmente corretto. Brutta bestia la paura. Eppure non è bastata a fargli scansare dal suo curriculum di servo perfetto due aggettivi che rimarranno emblema dell’esigente creatività di Dio: “malvagio” e “infingardo”. Eppure tutto era a posto, nulla era perduto, tutto era conservato. Proprio questa è malvagità: non investire i talenti ricevuti. Facendo finta di vivere. Perché non importa se la faccia fa ridere, se il carattere fa piangere, se il futuro desta preoccupazione: al Padrone della vita interessa il rischio di chi, rischiando, testimonia un Amore che l’ha travolto. Lacerato. Ammanettato. Fino a farlo risplendere.
Anche all’uomo della strada, forse, il Dio nel quale s’imbatté Camus starà facendo paura. O, meglio, lo starà lasciando indifferente. D’altronde sono millenni che parliamo dell’onnipotenza di Dio. E anche della sua onniscienza. Tutto ciò è teologicamente corretto.
Ma non scordiamo che Dio è anche Bellezza. Che vale il rischio di una vita.

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