Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

lepre

L’aspettavano, tutti frementi, a Roma: per lei s’erano imbavagliati fin sopra i capelli, fino a far giungere i vecchi Lince usati nella guerra in Afghanistan. Nella capitale della cristianità hanno fatto le cose in grande: si sono armati per difenderla. Lei, invece, ha fatto di testa sua, facendosi beffe delle più elementari logiche: s’è fatta trovare a Bangui, la capitale della misericordia, città di guerra, di conflitti, di scontri. La città ideale per la “donna” più attesa: la misericordia. Non era mai capitato che un Giubileo s’aprisse senza la magnificenza e lo sfarzo del colonnato del Bernini. Stavolta, invece, la misericordia ha fatto capolino proprio là, nel luogo in cui aveva più senso annunciarsi: nella miseria, in guerra, infangata dall’intolleranza e dall’odio. «La lepre è un animale difficile da prendere, è veloce e compie scarti improvvisi che destabilizzano l’inseguitore» scrive Ammaniti in Anna. La misericordia è una lepre: i suoi scarti improvvisi sono le sorprese di Dio, l’inedito della Grazia. Anche l’invito ad inseguirla, tant’è bella e gustosa da desiderare: fin sul ciglio delle terre più impensate, che sia la Repubblica Centrafricana oppure l’ultima cicatrice che è rimasta cucita nel cuore umano. La misericordia è miseria, cuore e fantasia.
Non s’è fatta trovare dove tutti l’attendevano: a forza di fare e dire cose scontate, la creatura rischia di diventare scontata. Il sogno di Dio, invece, è che la sua creatura stia sempre in agguato, con le orecchie tese, proprio come le lepri: per questo non si fa trovare dove l’uomo gli da’ appuntamento, ma dà appuntamento all’uomo laddove Lui si mette in testa d’incontrarlo. E sono sempre luoghi mai così banali da poterli anticipare: una terra di guerra, una situazione di peccato, un’anima ferita. Proprio lì Dio manda in avanscoperta la sua esploratrice, la misericordia: per preparare il terreno, per bonificare la terra, per fare le prove di canto generali della liturgia del perdono. L’uomo è una creatura che, dopo l’incontro con Lucifero, s’è appesantita: è diventata una creatura-tracagnotta. Dio la rimette in forma imboscandosi sulla via, per spiarla e, poi, agguantarla a sé: per fare questo ha bisogno dell’imprevedibilità e delle irruzioni, del contatto e degli scontri, del letame e del mangime. Della ferialità.
E’ apparsa volutamente a Bangui, ch’era come sferrare un diktat da monarchia assoluta: “Che adesso non cominciate a parlare a vanvera di me per dodici mesi”. Per evitare di fare di lei il prezzemolo delle discussioni ecclesiali. E’ apparsa laggiù apposta, perchè la misericordia non è un geometra ma un contadino, è più un artigiano che un filosofo, più storia sporca che verginità illibata: più verità che perfezione. E’ una donna esigente, di quelle che non si lasciano incantare dai giochi di parole degli amanti di passaggio: cerca la presenza, si nutre della storia, alle raffinatezze sceglie i rammendi e le cuciture. Mica una quisquilia, dunque, che si sia fatta trovare proprio dove nessuno l’aspettava, ma dove in tanti l’avrebbero desiderata: senza un povero attaccato addosso, quest’anno nessuno potrà parlare della misericordia senza correre il rischio di sentirsi dare del cantastorie, senz’apparire una sorta di cianfrusaglia contraffatta a libro paga del mercato globale.
Saranno dodici mesi ostici, dunque occasioni di Grazia pura, quella che manda gambe all’aria. Perchè prima di parlarne occorrerà viverla, subirla, abitarla. Solo dopo si troveranno le parole giuste. Anzi, non serviranno più le parole: basterà lo sguardo, lo diranno le gesta, lo urleranno le proprie ossa fratturate e ricomposte. Sarà un sapersi dei guaritori per aver scoperto d’essere stati guariti. Dei guaritori-feriti, le cui cicatrici sono diventate la memoria di ferite sanate. L’altra misericordia, quella a rischio-inflazione, è roba da tabaccheria.

(da Il Sussidiario, 8 dicembre 2015)

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