soldier drugs

La guerra porta morte e distruzione dai tempi più atavici. Prima fra clan, poi tea villaggi, popoli ed infine tra Stati.
Dalla guerra corpo a corpo con le armi bianche (prima in fanteria, poi a cavallo), alla diffusione delle prime armi da fuoco, poi dei carri armati, dei velivoli ed infine la guerra chimica e nucleare, fino ai recenti sviluppi che rendono possibile portare la morte rimanendovi distante, tramite l’utilizzo dei droni.
Ma questo è solo una stratagemma ipocrita, messo in atto nel l’illusione che aumentare la distanza dalla vittima possa aumentare in tal modo il distacco emotivo da garantire il mantenimento di una perfetta lucidità.
La realtà è che, anche da lontano, in guerra guardi la morte in faccia. La morte stessa prende la forma del volto di un essere umano (uomo, donna o bambino che sia) che muore. E, quando non muore rimane mutilato, quando non di un arto sempre della speranza e della voglia di vivere che ne rimane irrimediabilmente offesa.
In un certo senso, la guerra è terra di confine di fronte alla morte, come lo sono gli ospedali. Con una differenza fondamentale: mentre in un caso la morte è cercata e voluta (rappresenta lo scopo), nell’altro non è che un accidente, quello che succede quando non si riesce ad ottenere un risultato diverso, quando il talento di medici e chirurghi non è sufficiente a mutare il corso degli eventi e la natura mortale dell’uomo ha il sopravvento sulla sua facoltà razionale di contrastare le malattie che lo affliggono.
Gli italiani si distinguono per la semplicità. Durante la prima guerra mondiale, prima di sferrare un attacco, i soldati facevano uso di semplice e comune grappa. Continuando la tradizione delle truppe napoleoniche e un’abitudine altamente incentivata nell’esercito dell’impero britannico.
Dai primi dell’800, iniziarono a circolare le prime siringhe ipodermiche e la prima droga iniettata fu la morfina, largamente utilizzata durante la Guerra civile Americana.
I nazisti facevano uso di Pervitin, una metanfetamina che consentiva loro di vegliare fino a 22 ore. In Vietnam, il 20% dei marines assumeva eroina purissima. In Afghanistan, molti piloti americani assumevano Dexedrina, un’anfetamina che stimolava l’attenzione. I terroristi dell’Isis fanno infine uso di Captagon, una droga che inibisce la paura  di morire, prima di compiere gli attentati: tra gli effetti, ci sono anche euforia, perdita di ogni inibizione e resistenza alla fatica. Una siringa di essa è stata ritrovata nella casa di uno degli attentatori di Parigi, come anche presso uno dei terroristi di Sousse, in Tunisia. Per questo, viene ormai soprannominata la “droga della Jihad”.
Del resto, dal 2003, l’Air Force sperimenta sui militari gli effetti del Modafinil (farmaco contro la narcolessia), con lo scopo di aumentare le ore di veglia sopportate, arrivando a 48 ore senza dormire.
Dalla metà del 1800 circa, la tossicodipendenza era considerata la “malattia del soldato”, tanto era diffuso il consumo di stupefacenti durante i periodi bellici. Tali abitudini, naturalmente, non erano facili da perdere a conclusione dei conflitti, per cui il problema diventava ben presto una piaga sociale, di cui soffrivano soprattutto i reduci, che spesso erano vittime anche di varie forme di depressione e schizofrenia.
Basti pensare,  ad esempio che il disturbo post – traumatico da stress è denominato anche nevrosi da guerra, dal momento che le prime diagnosi al riguardo erano state riscontrate in militari che avevano partecipato a scontri bellici di particolare drammaticità (in particolare, tra i soldati USA che avevano combattuto la guerra in Vietnam, negli anni ’70).
Ogni droga porta ad un’estraniazione dalla realtà circostante. È evidente che, se questa è la ricerca, la realtà circostante risulta da dimenticare.  

In caso contrario, perché fuggirla?
Tutto ciò dimostra quindi di come la guerra, con ciò che la causa, non siano connaturati all’uomo, ma rappresentino, al contrario, una depravazione della sua natura, un capovolgimento di ciò che è il suo naturale percorso.
Ecco perché si dimostra necessario il ricorso ad un processo di alterazione della realtà. Uccidere seguendo un’esplicita volontà (non, quindi, per legittima difesa di fronte ad un’aggressione) non è naturale, è uno sforzo che va compiuto sull’animo umano e che trova compimento solo con fatica e forzatura esterna (anche tramite l’utilizzo di droghe di vario genere).
Una guerra è un evento shockante per chi la subisce. A questo avevamo probabilmente pensato da sempre. Lo consideriamo, semplicemente, una banale ovvietà.
Una vittima soffre per il male ricevuto. Subire una menomazione fisica o anche solo un sopruso alimentano il senso di ingiustizia e spesso portano alla depressione. Senza andare in paesi di guerra, questo è il vissuto di chi, anche in tempi di pace, è vittima di bullismo ed abusi.
Ma il male fa male a tutti. Anche a chi lo compie. A livello fisico e psicologico.
Queste brevi notizie portano testimonianza di ciò.Le prime vittime della violenza sono sempre coloro che la commettono. sono i primi su cui ricade il peso del conflitto, nonostante, per lo più, non siano mai i primi responsabili. Altri sono i committenti morali, che spesso, al contrario non subiscono affatto danni, tanto che tornano, anno dopo anno, a dichiarare guerre.
Dichiarare una guerra è sempre facile. Viverla è difficile. Viverla è distruttivo.
Pare che, però, chi dichiara la guerra, non la vive sulla propria pelle, per cui non ne sperimenta il carattere distruttivo e disumanizzante.
Forse, semplicemente, è questo il motivo per cui non sappiamo imparare dagli errori della storia: chi li commette non sperimenta quanto brucino sulla propria pelle.


Alcune fonti:

HuffingtonPost

Focus

Lettera43

 

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