Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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«Ascolta, Israele: Porrete nel cuore e nell’anima queste mie parole ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi» (Dt 6,4) : da quest’esortazione, trae origine l’usanza, tutt’ora applicata dai buoni ebrei osservanti, di legarsi, sulla fronte e sul braccio, un pezzo di corda che regge piccoli contenitori al cui interno sono conservati tre rotolo in miniatura con le Parole della Bibbia. Questo brano, Insieme con altri due (Dt 11,13-21 e Nm 15,37-41), infatti , costituisce la preghiera sinagogale degli Ebrei fino ai nostri giorni.
Nel rito del matrimonio cristiano, i due sposi congiungono le destre, in segno di comunione d’intenti. Inoltre, da qualche decennio, ormai, gli innamorati hanno assunto l’usanza di legare lucchetti quale segno del proprio amore, con l’augurio che esso possa durare a lungo.
Forse, a fronte di questi esempi, ci risulta più familiare la simbologia dei legami, che, a tutt’oggi (e non certo in senso negativo) sono usati per indicare l’impegno e la serietà con cui ci si prende cura di una relazione e non per indicare il possesso di un altro essere umano, né tanto meno la sua schiavitù.
Il pendaglio tra gli occhi, del resto, indica che qualcosa è sempre nel nostro sguardo, nella nostra mente, nei nostri pensieri: come l’innamorato che “ha la testa fra le nuvole” perché pensa alla sua bella, magari lontana. Tale è il pensiero di Dio su di noi, su ciascuno di noi: è quello di un innamorato, che si sofferma su noi, anche quando noi non ce ne accorgiamo e, anzi, temiamo che sia distante da noi.

L’amore vero, però, va oltre l’innamoramento: esige quella verità nella carità che chiede di esprimersi anche attraverso la correzione e quell’atto di “aprire gli occhi sulla realtà” che, pur essendo atto d’amore senza pari, se non è compiuto nel rispetto e nella comprensione, rischia di urtare la suscettibilità altrui e – così – ottenere solo indifferenza e ripulsa e non lo sperato ravvedimento da una strada che porta verso la perdizione. Questo è l’amore che Dio dimostra per noi e che ci chiede di mutuare in modo vicendevole, nella realtà in cui siamo collocati. Raccomanda infatti san Paolo: «se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza» (Gal 6,1).
Eppure non dobbiamo fraintendere il valore e la modalità della famosa correzione fraterna , che è importante, profondamente cristiana, ma molte volte incompresa, per questo, poco più in là, san Paolo precisa: «Ciascuno esamini invece la propria condotta e allora troverà motivo di vanto solo in se stesso e non in rapporto agli altri. Ciascuno infatti porterà il proprio fardello» (Gal 6,4-5).
La Chiesa non è (non dovrebbe!) essere il luogo dove mordersi a vicenda (Gal 5,15), quanto piuttosto la realtà. Donata e voluta da Cristo perché camminassimo insieme, alla luce della Parola di Dio: la vicinanza di altri fratelli è per noi l’opportunità di trovare e dare sostegno nel cammino, affinché tutti si giunga alla meta, non per dare vita a invidie e gelosie reciproche. Ecco perché il primo passo è sempre quello di guardare a se stessi (dove ciascuno troverà sicuramente già in abbondanza da correggere), prima di guardare intorno a sé.
La correzione fraterna, infatti, non è lo strumento per mettere alla berlina il fratello, ma è lo strumento per attuare, insieme, la sua e la mia edificazione: è un atto d’amore nei suoi confronti, affinché non si perda, ma non deve mostrarsi come un atto di superbia per umiliarlo (nemmeno quando sono assolutamente convinto di avere ragione!).

In questo, ci viene aiuto l’episodio evangelico, in cui possiamo vedere Gesù stesso all’opera in questo, con il suo stile inconfondibile. Dapprima, fa in modo di essere lasciato solo. Poi, al vedere arrivare una donna, samaritana, che si dirige al pozzo proprio nell’ora più calda (è evidente, quindi che ha qualcosa da nascondere e non vuole incontrare nessuno) si pone come bisognoso, così da dare modo a lei – socialmente isolata dalla comunità e con il “dente avvelenato” contro i Giudei che sdegnano il suo popolo – di comportarsi in modo altezzoso, approfittandosi della posizione di vantaggio in cui si sente inizialmente (lei è del posto ed ha i mezzi per attingere al pozzo, lui uno straniero assetato, ma sprovvisto di qualunque arnese per prelevare l’acqua, nonché senza l’autorizzazione per farlo, probabilmente). Paradossalmente, le premesse svantaggiose si rivelano proprio quelle che gli consentono, proprio partendo “da lontano” di creare il proprio vantaggio.
L’acqua, di cui lei si sentiva “padrona”, in vista dell’eredità di Giacobbe, assume ora un altro significato: più profondo, più astratto, ma anche più duraturo. Non è più ciò che consente la vita ed il sostentamento di tutto ciò che è vivo (vegetali, animali, uomini). È qualcosa che rende chi la conquista migliore: è qualcosa che sazia il bisogno in modo duraturo, senza rendere più necessario quello sforzo ripetuto, per l’approvvigionamento idrico quotidiano.
«Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 13-14). È evidente che, messa in questi termini, la donna samaritana dimentica la querelle tra i due popoli e s’incuriosisce: sa il fatto suo, quello straniero, sa come attaccare conversazione in modo interessante: chiunque vorrebbe evitare di continuare ad attingere acqua e non avere più sete!
È qui che s’inserisce, come coltello nella piaga, la domanda che scava nel passato (e nel presente) della donna. Alla richiesta di andare a chiamare il proprio marito, lei risponde prontamente che non ne ha. «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero» (Gv 4,17-18) replica il Maestro, evitando quei giri di parole che la samaritana pareva avere cercato, tagliando corto in quel modo. Tana!
Essere “scoperta” e ritrovarsi con la ferita aperta di fronte a quel Galileo, invece che intimorirla od indispettirla, pare infonderle un surplus di coraggio, tanto che, prendendo spunto da una disputa divenuta classica tra Giudei e Samaritani, gli domanda dove si debba adorare il Signore.
Quasi senza che lei se ne renda conto, si trova a discutere di teologia con il rabbi di Galilea, che, però, la invita ad andare oltre le diatribe dei rabbini: il Padre cerca infatti adoratori in Spirito e Verità. Gente che non sia così legata ad un posto preciso, da non saper riconoscere il Suo passaggio anche in quei luoghi che non Gli si addicono, lontani dallo splendore, ma, spesso, vicini al suo cuore. Perché, come la Storia Sacra ci insegna, spesso, è proprio nelle storie di semplice ferialità che si annidano le anime più belle, capaci di generosità e fiducia. Come la vedova di Sarepta (cfr. 1Re 17, 8 – 24). Come Maria di Nazareth. Come tante nostre mamme, che nella semplicità di una dedizione costante e fedele, hanno saputo trasmetterci il profumo dell’amore di Dio per noi.
L’idillio, come spesso accade, è immediatamente spezzato dall’irrompere dei discepoli, che sono tornati con la “spesa”. Ma tanto è bastato al messia per instillare un dubbio, carico di speranza, perché

la donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?»(Gv 5, 28-29)

Insomma: fu così che la donna che era andata al pozzo per attingere acqua, lasciò al pozzo l’anfora e si diresse in città. Fu così che la donna che non voleva vedere nessuno, andò a cercare le persone, perché aveva incontrato una persona fuori dall’ordinario, per cui valeva la pena “metterci la faccia”.
È proprio aver parlato di ciò che la angustiava a costituire la breccia attraverso la quale potesse passare l’annuncio del Regno. Attraverso la verità, una carità che è pienamente cristiana, perché non fa finta di non vedere il negativo, in nome del politically correva, invita ad alzare lo sguardo, verso ciò che è propriamente umano e ci rende più veri ed autentici.
È così anche per noi: spesso, è proprio attraverso i nostri difetti, le nostre mancanze, ciò in cui cadiamo più spesso che Dio ha modo di venirci a cercare: parte da quello, ma perché noi impariamo ad alzare lo sguardo e cercare ciò che conta davvero!

Rif: letture festive ambrosiane, nella II Domenica di Quaresima, Anno c (Domenica della Samaritana) – Dt 6,4a;11,18-28; Sal 18; Gal 6,1-10; Gv 4.5-42


Fonte immagine: jw.org

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