Giorgio Ponte, prolifico scrittore di origini siciliane ma ormai stabilmente radicato nella Pianura Padana, ha da poco pubblicato un nuovo libro, che ha voluto presentare e far conoscere ai lettori del nostro sito, tramite una chiacchierata, che ha avuto luogo in una giornata uggiosa, nella nostra sempre amata Milano:
1) Yokabe è il terzo libro della trilogia “Sotto il Cielo della Palestina”, di cui fanno parte anche Levi e Giairo. È importante rispettare l’ordine d’uscita delle tue fatiche letterarie? Che rapporto intrattiene Yokabe con le altre due ?
Le tre storie sono state scritte separatamente e pubblicate in ordine inverso rispetto a quello originario. Non c’è una continuità narrativa tra l’una e l’altra, perciò ogni lettore può scegliere di partire da quella che più lo ispira. Presto uscirà un’edizione con la raccolta completa, secondo l’ordine in cui sono state scritte.
Ciò che accomuna i tre libri è l’idea di base: prendere un personaggio secondario del Vangelo di cui nulla conosciamo attraverso i racconti biblici, se non quel singolo giorno in cui la sua strada si è incrociata con quella di Gesù di Nazareth, e provare ad immaginare la sua vita prima di quell’incontro e, soprattutto, dopo. Chi erano, come vivevano, perché si trovavano in quella condizione di bisogno specifico quando hanno incontrato il Nazareno? Paradossalmente, pur essendo un personaggio fondamentale per il compiersi della vicenda, Gesù in tutti e tre i racconti è il personaggio meno visibile, non protagonista, a favore dell’umanità dei tre protagonisti il cui dramma invece acquista tridimensionalità rispetto alla caricatura che a volta il racconto evangelico ne ha fatto per esigenze “cronachistiche”. Le storie di Yokabe, Giairo e Levi, nei loro tratti fondamentali, sono storie che qualsiasi essere umano in qualsiasi tempo potrebbe trovarsi ad affrontare. Infatti tutte e tre le storie sono scritte, nell’intenzione iniziale, per persone che non credono: poiché l’esperienza del dolore è qualcosa che accomuna tutti gli uomini sulla terra, e ciò che è profondamente umano, nella mia esperienza è anche profondamente cristiano.
2) Le tre storie del ciclo hanno un’ambientazione comune. Che influenza ha lo scenario, nella narrazione?
Parlando di Yokabe, sono partito dal desiderio di raccontare la mia esperienza di Salvezza: avevo infatti l’esigenza di dire ciò che Dio aveva fatto per me, nonostante mi trovassi in un momento della mia vita in cui non ero nella condizione di poterlo fare liberamente; così ho deciso di affidare quel messaggio di speranza a un personaggio evangelico nel quale mi rivedevo. Yokabe appunto. Il contesto è poi diventato funzionale a questa scelta. Yokabe è una donna sola che rischia di non sposarsi e di non avere figli, e questo nella Palestina di Gesù poteva significare una emarginazione sociale non indifferente, con tutte le sue difficoltà. Quando si scrive, bisognerebbe sempre parlare di cose che si conoscono: io ho avuto esperienza di essere salvato da una condizione di miseria interiore che mi faceva sentire alienato rispetto a me stesso, e questo è ciò che mi rende vicino ai personaggi protagonisti di questi racconti, lei in primis. Anche per quanto riguarda Israele e l’odierna Palestina, si tratta di una terra che avevo conosciuto all’epoca in cui scrissi questi libri, grazie a un bellissimo pellegrinaggio in cui l’avevo visitata in lungo e in largo. Certo, non ho vissuto nella Palestina di Gesù, ma ho comunque fatto esperienza di un’atmosfera reale che ho cercato di riportare nel racconto. Non si tratta di romanzi storici, per cui non ho avuto una cura eccessiva al dettaglio nel ricostruire l’ambientazione. Giusto quel tanto che bastava a dare plausibilità al racconto, concentrandomi di più sul dettaglio psicologico nelle vicende umane dei protagonisti.
3) Cosa ci dici della stesura di questo testo? Dai ringraziamenti, è possibile sapere che esso ha subito un importante rimaneggiamento…
Yokabe è stato scritto, come gli altri, più di dieci anni fa. Essendo il primo ed essendo nato all’inizio come racconto, era il più breve e quello scritto in modo meno accurato e maturo: il mio primo “esercizio di scrittura” dopo anni che non scrivevo nulla. Ero convinto che la storia in sé fosse convincente (diverse persone, del resto, l’avevano già letto, dandomi pareri positivi), ma aveva bisogno, oltre che di un grande lavoro di levigatura formale, anche di un ampliamento della storia che la rendesse più credibile nello sviluppo dei personaggi. Se Levi è stato pubblicato praticamente come era nella versione originale, Yokabe ha, invece visto molte scene scritte ex novo, soprattutto nella parte della vita precedente della protagonista. Questo per rendere comprensibile la sua vicenda e il gesto che si ritrova a compiere: il rischio nella vecchia stesura era di banalizzare la questione del male, dell’errore e della perdita di sé stessi. Posso dirlo sia per esperienza diretta che indiretta: quando si sprofonda nel male lo si fa sempre come nelle sabbie mobili, poco alla volta. C’è tuttavia sempre un momento, prima del buio più profondo, in cui si ha ancora l’occasione di scegliere una strada diversa. Né Yokabe, né chi la porta a perdersi nasce cattivo: ciò che fanno è il risultato di una catena lunghissima di ferite personali e piccoli errori, che messi in fila uno dietro l’altro conducono alla morte. Non ci si perde dall’oggi al domani. Ci si perde lungo la strada. Spesso, per il male ricevuto, si pensa che rispondere con altro male sia l’unica scelta possibile per sopravvivere. Nella prima stesura questo era molto meno evidente. Oltre a questa esigenza narrativa ce n’era un’altra stilistica per la quale il testo è stato rimaneggiato, e che fu messa in luce da un mio amico, Carlo Camarda, ragazzo di grande cultura che lesse la prima stesura tanti anni fa e mi disse che era didascalica e moraleggiante. Tale appunto mi diede fastidio allora, ma poi ne compresi la verità: allora, per via del legame affettivo che nutrivo nei confronti di questa storia, faticavo a vederne i limiti. Dieci anni dopo, sono riuscito a dare maggiore spessore psicologico ai personaggi, e più veridicità al racconto, accogliendo la critica di Carlo.
4) «Se avesse avuto occhi per guardare, il fabbro si sarebbe accorto che le rughe attorno agli occhi e alla bocca del fratello erano quelle di un uomo abituato a sorridere. Ciò che per lui era segno si trascuratezza e vecchiaia, in realtà era il frutto di una vita spesa per la donna che amava, con la quale aveva costruito una famiglia serena e ricca di figli, anche se faticosa. Non lo capì mai.» (cit. da pagina 72). Quanta influenza (negativa o positiva) può avere lo sguardo che noi riversiamo sugli altri e quanto può dire della nostra persona? Soprattutto, quanti fraintendimenti sono possibili da uno sguardo superficiale e frettoloso?
Lo sguardo sugli altri è importante, ma esso dipende in maniera fondamentale da quello che abbiamo su noi stessi. Poiché se non siamo liberi nel guardare noi stessi, non lo siamo nemmeno nel guardare gli altri. Questo brano fa riferimento alle vicende personali di colui che porterà Yokabe a perdersi: un uomo fragile e meschino, vittima delle sue insicurezze. Egli guarda al fratello con invidia ed un senso di inferiorità che gli impediscono di gioire dei suoi traguardi. Il frutto involontario di un costante confronto denigratorio perpetrato dai genitori. Lo stesso problema ha Yokabe, in rapporto a sua madre. Lo stesso problema abbiamo tutti noi quando, in positivo o in negativo, consideriamo verità assolute quegli aspetti che gli altri ci restituiscono di noi, soprattutto i più vicini. Bisogna recuperare uno sguardo limpido (o almeno il più limpido possibile) su noi stessi, innanzitutto “uscendo dal campo visivo” esclusivo di chi ci conosce da sempre, e proprio per questo magari tende a non accorgersi più di come siamo cambiati. Non si tratta di contrapporsi a quello sguardo, ma di ampliarlo. Ad esempio confrontandosi anche con persone esterne all’ambito familiare, che possono mostrarci aspetti di noi che non conosciamo.
5) «Così la caduta divenne abitudine e l’abitudine vizio» dici, con sintesi encomiabile, a pagina 78. Ciò, infatti, può essere vero per qualunque peccato.
Come la virtù è una “buona abitudine”, il vizio è una “cattiva abitudine”. Noi ci muoviamo per routine, per schemi, perché il nostro cervello ne ha bisogno per ottimizzare le risorse mentali. Il difficile sta, più che nel combattere il male dentro di noi, nel sostituire la routine negativa con una positiva. La mente si abitua all’errore, ed esso diventa una dipendenza: a volte, rimaniamo schiavi di un’abitudine negativa, perché è più semplice seguirla piuttosto che apprenderne una nuova. La fatica maggiore però, come in tutti i buoni allenamenti, è solo all’inizio. Superata la resistenza iniziale, la persona, il cervello, e anche lo spirito, si resettano. E tutto diventa più semplice.
6) «Nessuno merita il perdono, eppure tutti ne abbiamo bisogno. Tutti siamo in debito con qualcuno, con Dio almeno. Un debito infinito, incolmabile: quello della vita» dice Johanna, sul finire del libro. Una chiosa notevole, che rende ragione del libro, specie se accostata alle parole di Yokabe, subito seguenti: «Il perdono non è per chi lo merita, ma per chi si ama». Un pensiero simile può essere accostato anche alla confessione?
Sì, la confessione, a volte, è vista solo come un “andare a costituirsi” con lo scopo di “prendere la penitenza”: un obbligo da adempiere per “sentirsi la coscienza a posto”. In effetti, la cosa più importante, che accadde nella confessione è, piuttosto, il risanamento di un rapporto. Certo, l’ammissione di colpa è necessaria, quanto il pentimento. Ma essi sono solo funzionali al recupero della relazione. Come tra Yokabe e Johanna, è necessario ammettere il male commesso perché vi sia il perdono di quel male. Ma non perché tale ammissione sia funzionale all’amore. Yokabe è già amata da Johanna e, persino quando lo ferirà, lui continuerà ad amarla, pur con tutta la rabbia e la sofferenza che è normale che egli provi; è lei che non pensa di essere meritevole d’amore. Solo quando siamo disposti a mostrarci in verità, infatti, con la nostra pochezza, siamo disposti anche ad accogliere l’amore dell’altro. Solo l’amore vero sopravvive alla consapevolezza del limite dell’altro. Così anche nel rapporto con Dio e nella confessione: bisogna passare da un’ammissione di colpa, ma non perché essa serva a Lui per amarci. Essa è ciò che predispone noi a fare esperienza di un amore che supera sempre ogni nostro ragionevole merito. Più è grande la miseria, infatti, più sarà evidente la gratuità dell’amore ricevuto. E se questa gratuità non sempre è possibile viverla nelle relazioni d’amore umane, è certamente sempre possibile con Dio. Poiché il Dio cristiano è un Dio personale, che cerca la verità, più che la perfezione; la relazione, più che l’ossequio. E solo quando facciamo esperienza di questa relazione, allora diventiamo capaci di fare lo stesso per coloro che amiamo. E, in fondo, la storia di Yokabe e Johanna non parla altro che di questo.
YOKABE, GIAIRO e LEVI, così come la raccolta completa, sono ordinabili in tutte le librerie del circuito Mondadori e Feltrinelli sotto l’etichetta “StreetLib”, oppure si possono acquistare su Amazon o Ibs, sia in formato cartaceo che digitale. I libri di Giorgio Ponte sono inoltre disponibili su Kobo, come ebook.
Chi è Giorgio Ponte
Palermitano, trentacinque anni, laureato in Comunicazione Sociale all’Università Salesiana, titolare di un Master in Editoria presso l’istituto Comunika, per quattro anni tutor presso il Corso di Alta formazione dell’Università Cattolica di Milano “Il piacere della Scrittura”, Giorgio Ponte ha fatto diversi lavori nel commercio e ha insegnato religione alle scuole Medie fino al 2015. Il suo primo romanzo “Io sto con Marta!” è partito come successo del selfpublishing su Amazon, con seimila download in tre mesi e quattromila copie cartacee nel primo anno dalla sua uscita con Mondadori (Novembre 2014). Dal dicembre 2016 è online “LEVI” il primo capitolo della sua nuova trilogia autoprodotta a tema evangelico “Sotto il Cielo della Palestina”, seguita a distanza di un anno da “GIAIRO”. L’ultimo libro pubblicato, che chiude il ciclo, “YOKABE” è stato pubblicato a dicembre 2018
Parallelamente al suo lavoro di scrittore, dal 13 Maggio 2015 Ponte si è esposto al pubblico, raccontando la sua storia di persona con attrazione per lo stesso sesso in difesa della famiglia naturale e della Chiesa. Da allora gira l’Italia per tenere conferenze sui temi della fede e della vocazione e permettere a chi vive la sua condizione di leggere la propria storia in un’ottica diversa da quella comune. Da ottobre 2017, ha aperto il blog “Liberi di Amare” per raccontare queste e altre storie di Speranza.
Fonte immagini: Pixabay, archivio Giorgio Ponte