lupachiotti

Come una macchia di acquerelli dietro il grigiore delle sbarre. Franco (nome di fantasia) negli anni Settanta è uno stimato professionista del Veneto di provincia, specializzato negli assalti alle banche: una quarantina in carriera. La prima volta entra in carcere quand’è ancora minorenne e nell’università della galera affina il suo talento fino a farlo diventare lo stile di vita: chi tocca il carcere si sporca. Dagli assalti a volte esce vincitore, a volte ne esce sconfitto: “è la vita” – ci tiene a sottolineare. Fino a quel giorno di vent’anni fa in cui rincasa e trova mezza questura ad aspettarlo. E’ la fine, anzi no: è un nuovo inizio. Con un’acrobazia delle sue riesce a scappare: “ho vissuto sei mesi da latitante in Italia, tra chiese, cinema e rifugi di passaggio. Sempre con la pistola in tasca”. Mesi indaffaratissimi: si trattava di organizzare la latitanza altrove. Non si perde d’animo, sceglie la Colombia – “il paradiso dei latitanti” – e ci giunge come un avventuriero che tenta la sorte: una valigia, un pugno di dollari, il fiatone sul collo e, ovviamente, un passaporto falso. Il viaggio è di sola andata. La Colombia è terra per gente tosta: terra di cartelli e di narcotraffico, dove una figlia al mercato vale quarantamila euro e l’Amazzonia è una mappa geografica impenetrabile e, quindi, un’alleata amica e fidata. Conosce Gloria, donna colombiana, e la sposa: nascono Luigi, Isabella e Veronica. L’ex rapinatore di banche si reinventa un mestiere: impara a fare il cameriere, s’arrabatta come cantastorie, non si perde d’animo. “Sapevo solo fare il bandito – racconta col viso composto – ma in Colombia non puoi farlo: i narcos ti ammazzano”. E poi quella voce dall’accento che è un incrocio di sangui – veneto, italiano, spagnolo – lo tradirebbe all’istante: non è dei “loro”. Lavora nei migliori ristoranti, laddove tutti sanno che è un latitante ma la privacy è assicurata: “ho servito a tavola l’ambasciatore degli Stati Uniti d’America, ho fatto il cameriere anche a Jean-Paul Gautier e al suo gruppo di modelle”. Che dire: era quotato il vecchio rapinatore di banche, anche se per diciassette anni è stato come un fantasma che si è nutrito di pane, acqua, cipolla e limonata.
Poi un giorno la domanda di Luigi, il primogenito: “papà, perchè io non ho il tuo cognome?” Finge di non capire per non stramazzare. Incalza qualche mese dopo la bambina: “papà, perchè la maestra a scuola mi fa strane domande?” Il padre-latitante è messo al muro e s’accorge d’essere dentro il carcere più umiliante: “la mia vera galera è sempre stata quella di non poter dare la paternità ai miei tre figli”. E’ la fine.
Anzi, l’inizio di una nuova vita. Decide di consegnarsi alla polizia: lui, super-ricercato mai scovato, vuole scontare a tutti i costi la galera per riconoscere i suoi figli. Dopo una vita nell’ombra, il fantasma vuole avere un corpo. Riunisce la famiglia, spiega tutto ai figli, fa la valigia e parte: la destinazione è l’ambasciata italiana di Bogotà. Lì di lui non sanno che farsene, nonostante quel pesante mandato di cattura: cerca di spiegare la sua storia ma è troppo incredibile, non gli credono. Lo rispediscono a lavare i piatti: non ci sono soldi per farlo estradare, “a tornare gratis sono solo i narcos, i poveri come me devono pagarsi il biglietto per andare in galera”. Torna a Cali e riprende a lavare i piatti. Per poco, però: in due anni racimola qualche soldo e si compera il biglietto aereo. Dalla Colombia all’Italia: nel paese più violento del mondo, dove si muore per un paio di scarpe, Franco ha intravisto il segreto della rinascita. S’imbarca a Cali e via Madrid atterra a Venezia, sotto lo stupore della polizia di frontiera. Ultimo viaggio, direzione Padova: carcere “Due Palazzi”, roba per gente d’alto profilo. Bussa alla porta del carcere e trova il “pacco regalo”: tredici anni e qualche spicciolo di giorni da scontare.
Entra in cella e le risate si inseguono: qui la latitanza – e l’evasione che è la sua sorella gemella – sono orgoglio e vanto, genio e sogno. Anche Franco era di quell’avviso: fino al mese scorso. Poi, dopo il fondo, una feritoia: “voglio poter dare un volto al padre dei miei bambini. Costi quel che costi”. Per fare questo occorreva riconciliarsi con la propria storia, uscire dalla cella mortuaria della latitanza, far decollare una vita che era rimasta in “zona transiti”: un’acrobazia non da poco anche per chi è avvezzo alla logica dell’assalto. Loro laggiù, lui quassù: di mezzo l’oceano. Che, stavolta, nulla può al cospetto dell’amore.
All’ingresso del carcere campeggia una scritta, ardita e fallace: “vigilando redimere”. La prima parte è assicurata, la seconda versa tutt’oggi in pessime condizioni. Però – come canta De Gregori – “la storia non si ferma davanti ad un portone / siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere”; perchè laddove fallisce la legge, entra in gioco l’eccedenza dell’amore. Che chiede ad un fantasma di poterlo un giorno chiamare “papà”: alla luce del sole.

(Avvenire, 12 luglio 2013)

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