Lampedusa condivide la stessa radice di “lampo/fiamma”: dicono che il suo etimo derivi da quell’antica tradizione isolana d’accendere fuochi d’avviso per orientare i naviganti. Alle nove del mattino i piedi di Francesco – nome dalle forti assonanze evangeliche – si sono poggiati sulla terra del Molo Favarolo: una carezza simbolica, il gesto chiave di una maestosa umiltà in ginocchio su di un lembo di terra che conosce il garrire dei gabbiani che scortano i vecchi pescherecci, odorosi di salsedine e di carne umana, appesantiti da passi e passaggi di esistenze gettate alla rinfusa sulle onde di un mare tempestoso. Solo stava Francesco, dentro il silenzio burrascoso di un cimitero d’acqua: era solo anche Mosè dentro le turbolenze del deserto. Anche a quel tempo, come oggi, di fronte c’era una terra da conquistare: impararono ben presto a chiamarla benedetta in virtù di quella Promessa calata dall’alto. In entrambi i casi fu una Terra che li salvò dalla disperazione del quotidiano, pagata col prezzo delle ustioni provocate dal sole e dall’ignavia. Francesco si è chinato sulle piaghe, ne ha inspirato l’essenza espirandone la Promessa. Baciando quella terra è come se avesse baciato e carezzato i piedi di tutti coloro che la abitano: di passaggio, residenti, clandestini. Piedi che si cucinano nell’attesa di una salvezza sempre a portata di mano ma sempre dura a farsi trattenere.
Le chiama periferie ma in realtà sono il centro storico del suo cuore di pastore: denuncia il loro abbandono, pubblicizza la loro bonifica, celebra quella prossimità che le rende capaci di farci toccare la carne sofferente dell’Uomo della Croce. Ha voluto stazionare solo in questa visita, la sua prima visita pastorale: la profezia ha sempre un che di animalesco e di brutale nel suo intimo e ogni profeta lo sa. Cristo sequestra per i suoi scopi: forse per questo chiede di stare solo sotto la Croce. La vita del poverello di Assisi è uscita trasformata dopo aver toccato la carne del lebbroso: “quando si tocca la carne di Cristo sofferente – dice Bergoglio – può accadere che si sprigioni nei nostri cuori la speranza. È lì che possiamo ricevere la Grazia”. L’uscita nella periferia è per la Chiesa questione di vita: farsi prossimi ai poveri significa lasciarsi incontrare da Cristo stesso. Che rimane sempre altrove. Si riparte dunque dagli inizi, attaccati come ostriche a quella domanda primordiale che diede l’avvio all’errare dell’uomo: “Adamo, dove sei?”. Fino a cantare la bellezza del pianto, di quel lato affettivo della fede – il vedere, il gustare, il patire – che è la risposta non data alla domanda pressante di Dio: “dov’è il sangue di tuo fratello?”.
“Spero che capiscano il mio segno” – si è confidato il Papa nel mentre gettava in mare la corona di fiori: la delicatezza di un Pastore-condottiero al quale preme la luminosa comprensione del lato simbolico della gestualità. Uomo degli anticipi anche stavolta, Francesco: è arrivato prima di coloro che l’hanno accusato di legittimare la clandestinità. Forse perchè, da uomo di frontiera, sa discernere tra lo sguardo dei vinti e quello di coloro che sulle esistenze dei vinti guadagnano il lusso accreditando la disperazione. Il condottiero si è messo nudo di fronte alla sua truppa: non c’è miseria, non c’è rassegnazione, non c’è aria di sconfitta. In quel campetto da calcio c’è tutta la fierezza di un uomo mandato da Cristo a stringere l’uomo laddove la sorte l’ha gettato. C’era lui, c’erano loro e c’era quell’Altro: certe storie d’amore chiedono l’intrigo di una triade più che l’intimità di una coppia. Sono storie che nascono ai bordi del deserto, sulle sponde di un mare, nello scafo di vecchi pescherecci infiacchiti dalle navigazioni. Sono le pesche miracolose del Vangelo. Quelle che scompigliano le vecchie teorie di pesca per intonare il canto di Colui che si fece clandestino per Amore.