disoccupato

Col fiatone della cassa integrazione sul collo e il vestito del licenziamento cucito addosso: il palcoscenico ideale per un profeta che sembra dare di matto. Uno dei tanti perditempo che solcavano le strade della Palestina. Siamo a Genesaret, terra d’acqua e di sponde lacustri, una tristezza insaporita di primo mattino. Due barche ormeggiate sulla sponda (liturgia della V^ domenica del tempo ordinario). Pescatori che lavano le reti. Una notte intera a battere il mare, una mattina intera a contemplare il nulla. Sono ormeggiate quelle barche: quasi parcheggiate, addirittura spente. Come le storie dei pescatori padroni: rassegnati nel cuore e incurvati nelle spalle nel portare una notte di lavoro inutile. Anche il pescatore più esperto conosce momenti in cui si sente incapace di reagire, in cui i flutti delle onde non reggono l’entusiasmo di un mestiere raccontato di generazione in generazione. Ma Lui sale, ingenuamente spregiudicato. Sale, perché per Lui salire significa piantare la sua tenda dentro quelle storie desolate, nelle tessiture di vite che la notte ha gettato nello sbaraglio più totale. Perché quei pescatori escano da quella malinconica rassegnazione è necessario che qualcuno dia loro fiducia. “Salì (…) e lo pregò di scostarsi un poco da terra”. Siamo ai bordi dell’educazione: vede due barche, non chiede permesso, sale in una barca, chiede di spostarsi. In poche parole: chiede di lavorare a gente che, con tutte le ragioni del mondo, ha i nervi a fior di pelle. Forse che non conosce il carattere nascosto sotto i muscoli di quel pescatore di Galilea? Le parole di Simon Pietro sono chiare, forse stupisce anche la sua calma, tutto sommato: “Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5,5). E’ dunque stanco, deluso, forse infuriato, quando Gesù sale sulla barca per ammaestrare la folla che si accalca sulla riva del lago: ma Lo ospita, forse anche solo per non apparire maleducato agli occhi di quello sconosciuto. Finito il discorso e tornata la calma, accelera la spregiudicatezza: “Prendi il largo e calate le reti per la pesca”. Gesù non gli era sconosciuto: era già stato a casa sua, l’aveva già visto chinarsi per guarire la madre della sua sposa, era già per lui il “Maestro”, ma tornare su quelle acque avare e vuote quando si è ormai sfiniti e soltanto bisognosi di riposo, era davvero troppo. E’ come ricevere uno sfottò e ringraziare. Imparare a pescare da un falegname? Di giorno, poi? E’ come dire: sono un pescatore incapace, fallito, incompetente. Sono pescatore ma non so pescare: c’è qualcosa di peggiore nelle viuzze dei mercati palestinesi?
Avrà pensato Simone: “quando si esagera si esagera”. E non glielo risparmia: educatamente ma glielo getta in faccia il suo dubbio: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”. E’ lui, è Simone: piano con le prese in giro. Uomo libero, vero, da’ voce a quello che prova, fugge il rischio della mistificazione, possiede la capacità rarissima di dare alle cose il nome che hanno. Non ha paura a puntualizzare la situazione. Ma su questa barca chi se ne intende di pesca tra noi due sono io, non te. Caro Cristo, con calma e per favore! Non è forse di notte che si pesca? E’ vero, Simone: è stupido pescare di giorno, come sarà stupido evangelizzare dove non c’è nessuno. Uomo libero, Simone. Così libero da non azzardarsi a fingere che tutto funzioni alla grande: farla franca, per chi ha le reti vuote, è la pazzia più grande che il pescatore possa azzardarsi di compiere. Se la notte è stata inutile, se le reti son vuote, se il morale è a terra, anche il rischio va bene per salvare la faccia. “Ma sulla tua parola getterò le reti”. Saggio, quel pescatore: lascia aperta la possibilità d’incontrare Qualcuno più sapiente di Lui nell’arte della pesca.

“Signore, scusaci, ma giunti a questo punto dove vuoi che andiamo? (…) Quando nella nostra vita ci capita di dire una frase di questo genere, qualunque sia la forma letteraria con la quale ci esprimiamo, quando davvero ci rendiamo conto nella nostra esperienza che non abbiamo più alternative, allora il gioco della seduzione è compiuto. Coinvolgersi con un altro significa sempre raggiungere un punto in cui, in un modo o nell’altro, diventiamo consapevoli che, qualsiasi cosa accada da lì in poi, non sarà più come se quella storia non ci fosse stata. C’è un punto in cui scopriamo che non possiamo più tornare indietro. Anche se la storia finirà, potremmo sì andare avanti, ma non “tornare allo stato precedente”. E non è l’altro che non ci lascia alternative (anche se a volte lo possiamo accusare di questo), ma siamo noi che non abbiamo più un’alternativa nostra: non abbiamo più una “casa” (un luogo della nostra interiorità) a cui tornare come se non fosse successo nulla.
(S. Morra, Parole intorno al pozzo. Conversazioni sulla fede, San Paolo Milano 2013, 56-57)

Buttare la rete dalla parte giusta è questione di fiducia. Si può anche ritornare sui propri passi, si può rimettere in discussione una notte di fatica, l’arte di un mestiere imparato in una vita intera, si può essere insultati nel ritornare a pescare in ore inopportune ma se quella pesca ti disegna il miracolo di una vita nuova “sulla tua parola getterò le reti”. Tradotto: “secondo me tu sbagli, non c’è pesce ma io vado contro la mia ragione, mi fido. Sulla tua parola getto la mia vita”.
Gettano e pescano l’inverosimile. La mattina erano pescatori ormeggiati, la sera pescatori di uomini. Di mezzo un incontro che li ha sbilanciati: per raddrizzarli.

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