piazza

Nella piazza del paese campeggia la vita della gente: ambulanti all’opera e netturbini in azione, le comari all’angolo a chiacchierare e il sindaco in centro a pontificare, i negozi ai lati e nel mezzo il via-vai della gente comune. La storia di un paese potrebbe essere raccontata attraverso la vita della sua piazza: il commercio e il traffico, le notizie e le dicerie, il suono della campane e il profumo delle brioche fresche. C’era una volta la piazza: sembra che la crisi ne abbia ridotto il fascino e il potere d’attrazione. Un tempo i grandi comizi si facevano in piazza: un leader entrava nella piazza, proponeva, discuteva, forse anche veniva fischiato. Le piazze diventavano laboratori di pensiero, arene di discussioni, teatri di memorabili diatribe letterarie, politiche e cavalleresche. Era il tempo delle passioni forti e degli ideali robusti: non si aveva paura di scendere in piazza, anzi la si cercava a tutti i costi. Oggi la politica evita sistematicamente la piazza: meglio un teatro chiuso con partecipanti ad invito, più sicuro un piccolo bar del centro dove assicurare il tutto esaurito, più tranquilli nella ristrettezza di un’azienda dove unire l’utile al dilettevole. Oggi solo i comici (e i comici che diventano politici) hanno ancora il coraggio di andare in piazza: tutti gli altri hanno paura di fare flop, di sentirsi i fischi addosso, di avvertire che il pensiero della gente spinge altrove. “Maledetta piazza, sei diventata imprevedibile!”: anche per santa madre Chiesa. Il tempo in cui Paolo sfidava gli ateniesi nel loro areopago è acqua passata: lui non temeva la derisione, i fraintendimenti e nemmeno le dicerie sul suo conto. Entrò, guardò e ascoltò, parlò e conquistò: dopo esserne stato conquistato. Oggi la Chiesa ha paura della piazza: a meno che non sia riempita rigorosamente di gente scelta e accurata, di applausi assicurati e di risposte già preconfezionate. Meglio la sicurezza di un oratorio anche se disabitato o la compostezza di una liturgia nella cripta all’insicurezza di un’evangelizzazione a cielo aperto. La piazza, insomma, da amica è diventata un’ostica avversaria da evitare.
In piazza la gente vive e sopravvive, si organizza e discute, si anima e protesta: non esserci è quanto meno sinonimo di eludere la realtà e di voler fare come i bambini che, coprendosi gli occhi con le mani, tengono ancora l’ingenuità di non essere visti da nessuno. Forse per questo da tempo le grandi istituzioni (o quelle che sono state le grandi istituzioni) hanno perso la capacità di parlare al cuore della gente: abbandonata la frequentazione di quei luoghi nei quali si forma la cultura e si plasma un’identità, hanno iniziato a parlare in politichese e in ecclesialese convinti che bastasse parlare difficile per apparire dotti e sapienti. Dimenticandosi che il non frequentare la gente ha reso loro come credito l’impossibilità di entrare in contatto col loro linguaggio.
Beppe Grillo a Padova ha fatto il pienone in piazza. Qualcuno, nascosto dietro le colonne o sopra i palazzi, avrà maledetto quella folla che inneggiava al cambiamento. Nel mentre spiavano, li hanno scovati e fischiati: segno che la piazza è ancora viva. Ma, nel frattempo, è pure diventata esigente: stanca di sentirsi dare del “popolino” per il semplice fatto che non abita nei palazzi del potere, oggi è rimasta lei a fare da scure tra chi ha il coraggio della contestazione e chi teme la reazione alla solita prevedibilità. La piazza è una delle voci di una città, non l’unica: emblematico, però, che in piazza oggi pochi abbiano il coraggio di andarci. Con l’aggravante che chi scende in piazza è sempre dibattuto sulle sue proposte, chi non ci va è sempre troppo sicuro di quello che propone. Maledetta piazza, quanto esigente sei diventata!

(da Il Mattino di Padova, 10 febbraio 2013)

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