La questione carceraria è senza dubbio ricca di spunti di riflessione, che vanno ben oltre l’annosa questione del sovraffollamento, tanto cara ad alcuni, e che diventa inevitabilmente motivo elettorale per riproporre l’amnistia. Ma potrebbe davvero essere una soluzione, oppure no?

carceresanvittÈ giusto avere un approccio crudamente realistico al riguardo. Il carcere è una violenza, come ogni imposizione, che l’essere umano subisce; e si tratta esplicitamente di una modalità per sottrarre – con la forza – la libertà a un individuo. Ciò che normalmente non è consentito, viene accettato in virtù di un principio che dovrebbe  essere (dovrebbe!)  – al contempo – cautelativo, punitivo e rieducativo. Cioè, lo Stato si permette di togliere la libertà a un suo cittadino per cautelarne altri, per punire una trasgressione e per fare in modo che tale inottemperanza non si ripeta.
Questa la teoria che credo sia per forza condivisibile, quanto meno per l’inevitabile necessità che tutti avvertiamo di sanare i conflitti che nascono tra gli uomini, per poter vivere pacificamente in una collettività.
Questo fa sì che si venga a creare una sorta di città nella città. Una comunità dietro le sbarre, che condivide lo stesso destino, la stessa vita, a volte per anni e anni. Con la speranza, più o meno nascosta, di uscirne. Perché stare chiusi in una cella fa apprezzare la libertà di un cielo sopra la testa e la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, ma comporta anche la perdita della cognizione del tempo. E quest’ultimo dettaglio – è incredibile notarlo – colpisce tutti: chi è dentro per un crimine, chi lo è ingiustamente (tanti sono i casi di malagiustizia, per cui degli innocenti sono rinchiusi in carcere, a scapito dei veri colpevoli), ma persino chi ci lavora (guardie, educatori, assistenti).

Le Messe sono sempre molto partecipate, anzi è un momento di libertà che riceve rispetto da tutti – così attesta Giorgio Caniato, cappellano a San Vittore per 42 anni. Così coinvolgente, da aver bisogno di particolare attenzione, da parte del sacerdote, poiché anche alcuni musulmani approfittavano per accodarsi alla comunione. Strano da sentire. Noi che siamo così abituati a sbuffare quando c’è da andare a Messa, ad augurarci che il prete accorci la predica, che non la tiri troppo lunga e ci lasci tornare il prima possibile al pranzo, alla cena, alle nostre abituali occupazioni. In verità non mi stupisce. Mi è bastata una Messa pasquale in un braccio del 41bis ad Opera per avvertire il contrasto stridente tra la partecipazione a quella celebrazione in carcere e quella in una popolosa parrocchia alla periferia di Milano, funestata dal chiacchiericcio di moleste vecchiette, che facevano a gara su chi avesse avuto la giornata più stancante e su chi si fosse alzata prima. Non so se fossi stata solo io a rimanerne colpita, ma so che mi sarei aspettata che ci fosse gente sì, ma che la Messa fosse vissuta unicamente come un diversivo per rompere la routine quotidiana; invece ho trovato grande compostezza, grande raccoglimento e una partecipazione che non mi sarei mai aspettata. E, francamente, un po’ ti rimane quell’amaro in bocca: ti fa pensare al perbenismo della parrocchietta, che crede di essere (strizzando un po’ l’occhio all’eresia catara) una sorta di comunità di “puri”, separata dalla massa dei miscredenti e ti viene da sorridere perché, in fondo, senza grandi proclami e con la semplice presenza questi “delinquenti” danno dimostrati di saper essere molto meglio di noi, che siamo fuori. Forse è in quei momenti che è possibile toccare con mano e sperimentare la profezia per cui “pubblicani e prostitute vi passeranno avanti nel Regno dei Cieli”.
È interessante notare quale sia il rapporto tra il carcere, o – meglio – i carcerati e le altre religioni, in particolare quella che sta diventando una minoranza sempre più larga, quella islamica.

I musulmani in carcere sono molti, ma al riguardo c’è uno strano atteggiamento da parte dei loro correligionari. Mentre lo Stato fa il tentativo di venire loro incontro, per esempio mediante attenzioni alla distribuzione dei pasti durante il ramadan, le loro autorità religiose se ne disinteressano, perché li considerano criminali: quando ai rispettivi Paesi d’origine abbiamo chiesto di far venire diverse copie del Corano, queste sono arrivate, ma poi sono rimaste nelle ambasciate perché per molti musulmani un criminale non merita di pregare».Questa spiega forse la massiccia presenza alla messa, frequentata anche dai musulmani. Per chi segue una religione, come quella musulmana, in cui far parte della comunità dei credenti (Umma) è fondamentale, sentirsene esclusi senza possibilità di rientrarvi è qualcosa che sicuramente addolora. Ecco perché, anche, o forse soprattutto, ora che quella cristiana non è l’unica religione, si rende necessaria più che mai la presenza di Cristo nelle carceri. Un Dio in croce, crocifisso, sconfitto, sovrastato dalla giustizia umana (così fragile, fallibile e soggetta a sentenze quanto meno discutibili e poco eque) che, dall’alto della croce, abbraccia tutto il dolore e le inquietudini universali: Chi, meglio di lui, potrebbe comprendere le sofferenze di chi subisce una punizione e infondergli speranza in un riscatto sempre possibile? Forse è proprio l’apparente sconfitta che può rendere la speranza anche a chi non è cristiano. Perché un Dio che muore in croce o crea scandalo o fa riflettere.Quale può essere dunque il ruolo del sacerdote, in una comunità così particolare, come quella racchiusa entro le mura di un carcere?   «Nel carcere, posso occupare un posto diverso dagli altri solo se faccio il prete, altrimenti sono anch’io uno strumento del potere giudiziario. Asciugare le lacrime di una persona che soffre, telefonare a casa per conto suo è un’opera di misericordia; a volte anche di notte mi chiedevano di chiamare a casa, di avere notizie delle loro famiglie che non sentivano da settimane.

Prendersi cura non significa “fare l’amicone”. Anche perché non si può fare l’amico, si può solo – e profondamente – esserlo. Tuttavia, è possibile porsi accanto ai detenuti, “prendendosene cura”, riconoscendone la piena dignità umana, nella verità e nella libertà. Sì, perché se il carcere nega la libertà di movimento, ancora maggiormente andrà coltivata la libertà del cuore e della mente, che consenta di percorrere orizzonti vasti, senza farsi rinchiudere dai luoghi o dal pensare comuni.

La salvezza di Dio è proposta, non imposta[…].Gesù viene a liberare i prigionieri: se non si vuol leggere questa parola solo in chiave sociologica, la si deve leggere in chiave di salvezza per l’uomo, in quanto Cristo viene a liberare l’uomo da ogni male e dalla causa di ogni male, che è il peccato. Ma questo non elimina la responsabilità personale: è curiosa la doppia sensibilità, tutta emotiva, per cui fuori dal carcere le persone sono considerate dei delinquenti, ma quando sono in galera sono considerate dei poverini. Sono invece uomini responsabili delle proprie azioni, ed è peccato anche non accettare la legge, non svolgere correttamente il proprio ruolo nella società. Ciò che si può offrire ai carcerati è il perdono di Cristo, che non toglie la pena carceraria: offre piuttosto uno sguardo su un modo diverso di vivere.

Credo che ricordare questo sia fondamentale nell’approccio al carcere. Non è possibile dimenticare i motivi per cui un detenuto ha perso la propria libertà, tuttavia è bene anche fare memoria, sempre e comunque che nessun gesto può cancellare la primigenia dignità dell’essere umano. C’è di più. Il carcere stesso sottolinea l’abissale differenza tra la giustizia umana e quella divina: quella umana può commettere errori non risarcibili (nessuna somma in denaro potrà mai ripagare il valore degli anni di giovinezza libera sottratti a un innocente recluso!), quella divina è capace di vedere il cambiamento del cuore e delle intenzioni, ben prima di qualunque reinserimento previsto dal sistema penitenziario. In aggiunta, garantisce quell’amore incondizionato di cui ha sempre più fame l’essere umano, in un mondo – come quello odierno – sempre più grande e interconnesso, ma – nel profondo – sempre più sofferente di solitudine e d’abbandono.

L’amnistia ha un senso se c’è un programma serio di reinserimento dei detenuti, qualcosa che garantisca loro un lavoro e una casa, almeno all’inizio: se non si fa questo, se ci si limita a “svuotare” le carceri, il risultato è che molti sono costretti a delinquere di nuovo. C’è poi il problema, di gravità crescente, degli stranieri: dove vanno se non hanno da mangiare o un posto dove vivere?.

Di fronte al dramma del sovraffollamento che funesta le carceri italiane, si accavallano le proposte più fantasiose, che vanno dal braccialetto elettronico, all’indulto, fino all’amnistia. La puntualizzazione  dell’ex cappellano è preziosa: non si può ricorrere a soluzioni di comodo, pensando che possano davvero efficaci a risolvere problemi complessi. Personalmente, credo che ci sarebbe bisogno di un maggiore impegno nella promozione delle carceri. Spesso, esse si trasformano in un deposito di cittadini resi forzosamente inattivi, senza minimamente pensare alla possibilità che possano svolgere funzioni che siano un bene per sé e per gli altri. A latitare è la funzione rieducativa del carcere, che è poi quella portatrice di speranza: se non è contemplata la possibilità di recuperare un errore del passato, il tempo trascorso in carcere è inutile. Se gli è preclusa ogni via di ripresa, al carcerato non resta che scivolare nell’abisso dell’oblio, consapevole di aver intrapreso un cammino diretto verso un buco nero, che non gli restituirà nulla.
Ma se manca l’opportunità di cambiare davvero per poter rientrare nel tessuto sociale e rendersi utili, cos’altro può spingere uomini che hanno sbagliato a tornare sui propri passi?

Fonte: Donboscoland

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