Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Lo considero il tributo commosso e deferente alle tradizioni che resero smisurata la quotidianità dei nostri antenati, artigiani che impastando il nulla con la creatività composero gesta d’ispirata immaginazione. Tra le piccole notizie di un bollettino regionale su internet – troppo genuine per essere ingigantite nelle grandi colonne mediatiche – annunciano che in questi giorni all’Università Europeenne Jean Monnet di Bruxelles un giovane fornaio bellunese diventerà "dottore in pane". Il titolo della tesi: "Il pane, dalle origini della panificazione alle odierne esigenze alimentari". La scintilla s’è accesa rimembrando al padre che sfornava il pane all’alba, al silenzio del primo mattino mentre il paese ancora dorme, all’emozione di raccogliere in anteprima i primi sbadigli riposati che scambiano due battute con il tintinnio delle campane.

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Chissà perché oggi – immersi e condannati a nuotare tra le ondate di pubblicazioni, le maree di recensioni e i gas di scarico di molte riviste scientifiche – c’illudiamo d’essere giganti nel pensiero solo se sposiamo donna complessità. Perché castigarci a chiamare "polenta di mais" quell’opera d’arte che le nostre nonne, prendendosi per tempo, inanellavano come passi di danza sulle vecchie fornelle di montagna e battezzarono "polenta"? Solo quaggiù, confusi e sbattuti tra mille arcani segreti, ci divertiamo a imbrogliarci la vita ingarbugliando le idee!
"Dottore in pane": chissà sia solo l’incipit di una vasta produzione che va a stanare le vecchie tradizioni che la terra ci tramanda. L’immaginazione è potente, così forte che a volte gioca d’anticipo sulla realtà. E allora chi impedisce ad uno studente, figlio di contadini, di spendere anni di studio per trovare il segreto della mungitura, della produzione del latte, della stagionatura del formaggio. Tra i colossi epocali firmati da Platone e Aristotele che parlano di cielo e terra, da Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio che colloquiano sull’essenza di Dio, da Agostino d’Ippona e Kant mentre discutono di conoscenza umana e divina non sfigurerebbe di certo il passo lento delle levatrici del Novecento, il braccio stanco delle stiratrici all’opera per un pane, il fischio del pecoraio che, avvisato dalla gobba del sole, rincasa contando coi sassi il numero degli armenti. E poi la geografia della schiena del nonno-zappatore, del padre mugnaio, del bisnonno arrotino. Del parroco poeta. Tra le aule delle università dei sapienti entrerebbe, a passi lenti e informali, la vita semplice e le semplici tradizioni di un tempo che ci ha regalato natali, possibilità e tenore di vita.
"Dottore in pane" perché conquistato dal silenzio della notte, del primo mattino, dell’attimo che precede il crepuscolo. Il tempo preferito da Platone – del quale si dice consumasse più olio nella lampada che vino nella coppa -, da Napoleone che iniziava la giornata alle quattro del mattino. Del Balzac francese che svegliava la sua penna all’una di notte. Di D’Annunzio che alle tre del mattino rompeva il sonno per partorire. Di Gesù di Nazareth che sceglieva la notte per pregare. Inventare. Scorticare le giornate dell’uomo. Di notte s’avverte meglio l’urto della secchia nel pozzo, la canzone del fuoco, il tonfo di una mela, le parole cupe sulle soglie, il grido del bimbo. Le cose che non passano mai.
Oggi della notte s’ha paura. La s’inventa bianca purchè non spaventi. I magazzini rimangono aperti a Roma, a Londra i negozietti sono la gioia dei nottambuli. Ma anche parrucchieri, dentisti, fiorai, librai concorrono a cancellare lo spazio del silenzio, della concentrazione, dell’immaginazione creativa.

Risultato?
Chi ci arriva a laurearsi in mezzo al frastuono scrive titoli spaventosi: "La filosofia come palangenetica obliterazione dell’io cosciente che si infutura nell’archetipo prototipo dell’antropomorfismo universale". Che significa? Vuoi mettere: "Dottore in pane".
Non senti che profumo?!

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