Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

 Bosniak 4. Parte 3

Il Natale è alle porte, ormai sono tre mesi che sono a casa da lavoro. Stavo recuperando bene, molto bene, ma poi un movimento brusco per fermare mia figlia che altrimenti sarebbe caduta dal letto e un tentativo precoce di tornare a correre, hanno infranto la gioia di questa guarigione al galoppo. Sono sorti nuovi mali, satellitari alla ferita, dolori addominali, spesso lancinanti. Cosa sarà successo? Avrò stirato qualche muscolo?
Ho dovuto così ricominciare poco per volta, evitare i pesi, nuovamente. Chissà per quanto ne avrò, a questo punto. Soprattutto mi chiedo se tornerò effettivamente come prima, se questi dolori se ne andranno davvero per sempre. “Tempo al tempo” mi dicono tutti, io annuisco con un sorriso di conferma.
Tuttavia, dovrò tornare a lavorare dopo le vacanze, altrimenti non recepirò più lo stipendio e questo – ovviamente – non me lo posso permettere, perché tengo famigghia, e già questo mese ne prendo la metà. Grazie a Dio, c’è la tredicesima. Uno deve sperare e pregare che la sua salute non venga mai meno, guai ammalarsi!, perché, ora come ora, per un precario come me, è una disgrazia stare male troppo a lungo.
Tralasciando quest’abbozzo di polemica socio-economica, voglio tornare alla mia salute, che, appunto, è di nuovo cagionevole: mi basta un niente e il male riaffiora, limitandomi un po’ in tutto.
Pochi giorni prima dell’intervento dicevo alle mi colleghe: “Tornerò quando sarò in grado di correre 10 km senza problemi!”, invece, tornerò senza saperne fare uno di corsa. Però cammino; faccio 6 km un giorno sì e uno no, sempre attentissimo ai dolori in agguato.
Questa camminata di un’ora, che mi porta sulla strada, a ridosso dei campi invernali, con il freddo pungente e l’immancabile nebbia della Pianura Padana, mi sta salvando e disvelando dimensioni importanti e per me fino ad ora sconosciute, o meglio, mai approfondite.
È nato tutto da Storia di un’anima di santa Teresa di Lisieux. Le avevo promesso che l’avrei letto durante la convalescenza: così, ormai un mese fa, mi ci sono tuffato e, in una settimana, ho bevuto questa perla della spiritualità cristiana.
Non voglio ora fare una sintesi dell’opera di Teresa, ma accennare ad un punto che per me è stato fondamentale e che ora mi sta cambiando radicalmente.
Verso la fine del libro, la santa di Lisieux, mia protettrice durante l’operazione, confessa di fare una fatica tremenda a recitare il rosario e di preferire lo slancio del dialogo, dove può aprire totalmente il cuore ad Abbà.
A volte, si dice che per la vita spirituale non servono i libri; si vede che è una strada d’altri, perché, nel caso mio, non è affatto così, ed ogni libro, ogni buon libro per la precisione, nella mia vita è un passetto in più nell’affinamento della vita interiore.
Quando ho letto quelle pagine ho detto: “Fermi tutti! Qui c’è qualcosa che non va!”, invece Teresa diceva proprio così, della fatica di pregare con le Avemaria, alle quali, comunque, non rinunciava. Mi stupiva soprattutto che una santa come lei potesse dire una cosa del genere; eppure era vero e questo mi ha sollevato incredibilmente, perché anche io, che mi considero un convertito a Medjugorje, prego il rosario quasi ogni giorno… ma quanta fatica! La mente vaga, mi distraggo, penso ad altro e mi stanco inutilmente.
Non rinnego questa forma di preghiera, a cui sono affezionato e alla quale riconosco un enorme potenza. Ci mancherebbe che la rinnegassi! Assolutamente! Però ho trovato quest’altra via per incamminarmi al buon Dio, si è aggiunta alla mia spiritualità e non la lascerò più.
Cara Teresa, quelle tue righe mi hanno stravolto. In meglio.
Da lì, da quelle pagine del dottore della chiesa, sono cominciati i miei dialoghi con il Padre, che semplicemente chiamo Papà. È un passaggio fondamentale passare dalla formalità di dire “padre”, che dà sempre una serietà eccessiva alla figura paterna (quante volte ai nostri giorni abbiamo chiamato nostro papà, “padre”?) al dire, senza troppi problemi o fisime varie, “papà!”.
Avevo parlato altre volte con Gesù e avevo già capito quanto quella fosse una preghiera più sincera e vera, per me, dello sgranare il rosario, che comunque, ripeto, non abbandono e che resta per me uno strumento di potenza contro il Male sempre in agguato. Ma ho capito che devo dirlo in momenti di serenità e di concentrazione, quando posso davvero mettermi in silenzio e pregare Maria.
Forse dovevo passare per migliaia di Ave, prima di giungere a questa forma di preghiera profonda, a questo dialogo vero con Dio.
Qualcuno potrebbe dire che parlare con Dio non è altro che un modo di liberarsi di certi pesi o problemi, e che il fatto di parlare con qualcuno, che comunque non vediamo, giova alla salute psicofisica. Ma si faccia la prova, si provi a parlare con Dio e si sentirà, da subito e alla fine, che le proprie parole non sono state lanciate al vento, ma che vi era davvero un presenza viva ad ascoltarle come nessuno mai ci ascolterebbe.
Chi è pratico di questa forma di preghiera sa di cosa parlo, come sa bene di non parlare al vento, in una sorta di autoanalisi psico-spirituale, ma di porsi a fianco dell’Io sono, di chi c’è per davvero, vivo, in noi.
Ciò avviene, come accennavo, nelle mie camminate, dove da ormai venti giorni, per un’ora mi trovo a parlare a voce più o meno alta con Papà. Aspetto di passare il nucleo più grosso di case, perché se qualcuno mi vedesse parlare da solo mi prenderebbe sicuramente per matto. Superate quelle però, comincio: “Eccomi, Papà!”. E gli parlo, gli svuoto il cuore, gli racconto dei problemi che ho, gli chiedo aiuto per tanti amici. Lui mi si affianca e ho compreso il suo essere Dio della strada, Dio del cammino, Dio che si mette sulla via della nostra vita. Ci affianca, si fa presente come ad Emmaus, lungo il sentiero.
Quello che mi sconvolge di più è, però, il suo essere sempre lì. Non è tanto lui che si affianca, ma io: perché lui è sempre con me, in realtà, dentro di me. L’ha detto Gesù, chiaramente: il Regno di Dio è dentro di voi. Di Dio, e, quindi, Dio stesso vive in noi. Basta chiamarlo, non è lontano, non è oltre il cielo, ai confini del cosmo, ma vicinissimo, anzi dentro di noi, vive in uno spazio che io non conosco, che non saprei indicare: mente, anima o cuore? Però so che c’è, e mi basta. C’è e mi ascolta, seriamente, a volte gli faccio qualche battuta e mi par di vederlo sorridere. Gli parlo anche in dialetto. Se si dilata bene il cuore, si colgono chiaramente anche certe risposte, altre sono meno limpide, forse le lascia a noi, perché ci vuole liberi e responsabili, come a dire: “Sei grande, sai bene cosa fare, vai e non ti preoccupare, io sono con te, sempre, lo sai”.
Due volte mi sono ritrovato a piangere come un bambino, fortuna che era sera e nessuno mi ha visto, altrimenti chissà cosa avrebbero detto vedendo uno piangere per strada.
È un fatto che non mi era mai successo con le orazioni “classiche”. Per cui ora dico: “Ma quanto potente e vera è questa forma di preghiera!”
Ora capisco cosa significa “pregare col cuore”.Per quanto tempo mi sono portato addosso questa domanda: cosa vorrà dire “pregare col cuore”? E tutti a dare risposte vaghe, imprecise, a parte gli esicasti, ma quella è un’altra storia.
“Pregare col cuore” è proprio questo mettersi a parlare con Dio, schiettamente, dicendo tutto, davvero tutto, anche le nostre nefandezze, vomitando i nostri demoni. Lui è lì per quello, mica perché vuole farsi adorare. Che Dio sarebbe un Dio che ci crea per farsi adorare? Mi pare piuttosto, sbirciando tra le righe del Vangelo, che egli sia il Dio dell’amore, che l’unica cosa che desidera è amarci totalmente e farsi amare (“mi ami Pietro?” Gv21,15-19).
Si parla con lui, che è una Persona vera e viva, non un morto, e si apre il cuore. Aprendolo lui ci esce incontro, anzi era già lì.
Insomma, è la mia ora con Dio, per le vie nebbiose e fredde che passano per i campi. Un’ora di letizia e di ristoro impagabili.

E qui viene il bello: ma se io non avessi avuto un tumore e non fossi stato costretto a riprendere lentamente la mia vita, avrei scoperto tutto questo?
Il grado di serenità, di gioia, la capacità di osservare la vita e le persone con occhi di misericordia e di amore indescrivibile, li avrei mai raggiunti senza questo travaglio? Senza questo male?
È vero: adesso ho una ferita “cheloidale” terribile, dallo sterno a poco sotto l’ombelico, dolori che vanno e vengono per un nulla di troppo, che non so neppure se passeranno, ma tuttavia, e mi tremano le mani a scriverlo, mi vien da dire che forse questo tumore è stato una grazia, un dono, una benedizione più che una maledizione. Quasi mi sento di dire che è uno dei periodi più belli della mia vita, forse il più bello.
Senza le ferite che ora ho addosso, senza questo tumore che, grazie ai medici e al buon Dio, mi è stato tolto, ora non avrei questa vita spirituale nuova, questo sguardo nuovo sul mondo, sul cosmo intero.
Fatto ancora più straordinario è che per raggiungere questa nuova consapevolezza, questa spiritualità intensa, non sono dovuto andare da nessuna parte, non ho dovuto “fare cose, vedere gente”, mi è bastato andare per strada, con il sole fioco, il cappuccio tirato sulla fronte, tra i campi e l’asfalto e iniziare a parlare con Dio ed eccolo lì, nella campagna padana, a Limena, non in un santuario, ma in un’anonima stradina grigia. Eccolo lì, per la via, incamminato quanto me. Quindi non ho dovuto nemmeno fare chissà quali viaggi o chissà quali esperienze, no, era già tutto in me, Lui in me, tutto intorno a me, nelle persone che mi circondano. Dio non è fuori, ma dentro di noi.
Lo immaginiamo sempre lontanissimo e per questo inavvicinabile, irraggiungibile. Dio lontano. Un essere distante dalle nostre vite, il più grande menefreghista delle tragedie umane, dimentico di noi. Invece lui è qui! Nemmeno a due passi, ma proprio in me! Basta aprire la porta, lasciarlo entrare. “Dio abita dove lo si lascia entrare”, sospirava Martin Buber.
Adesso sento di aver questo scrigno tra le mani. Non c’è denaro dentro, pietre preziose, oro o quello di cui va in cerca il mondo, c’è solo ciò che di più essenziale dovrebbe esserci nella vita di un uomo: il suo rapporto con Dio, con colui che gli ha donato la vita, con quello che i cristiani chiamano Abbà.
Da questo rapporto, così intimo e vero, vero, scende a cascata ogni bene, dalla pace profonda del cuore alla capacità di penetrare il mondo con spirito nuovo.
E questo è un tesoro nei cieli, dove i ladri non scassano nulla e la ruggine è il colore della veste di un cherubino. Chi potrà privarmene, chi potrà portarmelo via?
Solo l’affanno di questa vita occidentale mi spaventa, questi ritmi forsennati, disumani, che non favoriscono minimamente una relazione sincera con Dio, ma che anzi sembrano opporsi ad essa con terribile forza. Ma stringerò questo scrigno e nessuno me lo leverà, anche perché non è uno scrigno qualunque, da tenere nel cuore è basta, è piuttosto uno scrigno che vive come una pianta, che necessita di essere curata, dissodata, sistemata giornalmente, solo così mostrerà i suoi tesori, i suoi frutti. È solo una questione di costanza insomma, nulla di più, di stare un’ora, almeno una, a parlare con Dio, non di Dio, ma con lui proprio, come Abramo e Mosè, come Gesù quando saliva sui monti o s’imbucava nei deserti.
Per cui, nuovamente, quello che si era presentato come un male, si è tramutato in bene. Il male è diventato una grazia. Il dolore si è tramutato in gioia e pace profonda. La mia vita è cambiata, in meglio, per sempre.
Lui trasfigura ogni cosa.

Alberto Trevellin (Padova 1988), laureato in scienze religiose prima a Padova, poi a Venezia, è insegnante di religione. Sostiene che i bambini salveranno il mondo e che senza di essi non potrebbe vivere. La mattina, quando si sveglia, guarda verso il monte Grappa, per il quale ha un amore smisurato. Ama camminare tra le alte cime delle Dolomiti, correre in mezzo ai boschi, andare per sentieri sconosciuti. È sposato con una donna che crede affidatagli da Dio e ha due bambine bellissime quanto vispe.

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