Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Non dev’essere un caso se, nella cultura occidentale, gli ebrei sono conosciuti come mercanti – e usurai –: basti pensare, giusto per citare un esempio, ad Abraam giudeo, protagonista, con Giannotto di Civignì, della seconda novella della prima giornata del Decameron boccaccesco, oppure il Mercante di Venezia di shakesperiana memoria.
Cos’hanno in comune figure così dissimili tra loro, in apparenza (il mercante e l’usuraio)? L’abilità nel maneggiare e trafficare i soldi e la tendenza nell’essere molto abili anche nell’arte della contrattazione.
Un’arte, la cui genesi pare proprio connotata nel DNA ebraico, dal momento che la prima lettura ci fa pensare risalga, come minimo, già ad Abramo, che vediamo, infatti, intento in una serrata contrattazione con l’Onnipotente.
Ma collochiamo meglio questo episodio nel suo contesto.
Dopo aver incontrato i tre viandanti a Mamre – camuffamento di Dio – Abramo viene a conoscenza del piano dell’Altissimo di distruggere le città di Sodoma e Gomorra. L’immoralità ed il degrado del peccato a cui si abbandonano sono tali da aver oltrepassato ogni misura.
In Israele, è forte il sentimento della responsabilità collettiva: per questo, Abramo non punta a restringere il castigo solo agli ingiusti, quanto, piuttosto, con maglie sempre più strette, da buon mercante, ad ottenere il condono per tutti, ad opera di qualche giusto, che “migliora la situazione complessiva”.

Perché si è fermato a 10? Geremia ed Ezechiele oseranno scendere ancora di più, intuendo che Dio perdona il suo popolo se incontrasse anche un solo giusto. Va ricordato Geremia: “Percorrete le vie di Gerusalemme, osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se c’è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà, e io la perdonerò” ( (5,1). Va ricordato Ezechiele: ” Ho cercato fra loro un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a me, per difendere il paese perché io non lo devastassi, ma non l’ho trovato.” (22,30). E il profeta Isaia (cap 53) garantisce che la sofferenza del solo “Servo di YHWH” salva tutto il popolo; ma quest’annuncio non sarà compreso che quando si manifesterà Gesù (don Raffaello Ciccone, Parole Nuove)

Ha infatti pagato Lui, unico giusto, il riscatto per gli ingiusti (al suo cospetto, chi potrebbe definirsi giusto, senz’arrossire?).

«Sono in pochi a salvarsi?» è il quesito che riecheggia dalla pagina evangelica. Quanti? Che dimensioni ha l’esercito? Di soldati, o di credenti, poco importa. A noi uomini interessa sempre sapere quanto sia grande la compagnia, per stabilire se “valga la pena”. Dio, però, non ragiona così.
Tale preoccupazione è troppo mondana, perché Cristo l’accolga; non risponde neppure, quasi a suggerire che sia la domanda stessa ad essere malposta e l’interrogativo futile, suggerendo – tuttavia – una nuova pista di riflessione.
Non importa tanto quanti, piuttosto, come sia possibile salvarsi. Quasi che importi più la nostra volontà di farlo che non i posti disponibili. Non ci sono, quindi, “posti riservati” o “esclusivi”, ma – in teoria – il posto c’è per tutti: solo se, però, in pratica, decidiamo di accogliere Dio nella quotidianità della nostra esistenza, con i fratelli che ci sono più “prossimi”.

Chiunque ha bisogno di me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo. Il concetto di prossimo viene universalizzato e rimane tuttavia concreto. Nonostante la sua estensione a tutti gli uomini, non si riduce all’espressione di un amore generico ed astratto, in se stesso poco impegnativo, ma richiede il mio impegno pratico qui ed ora (Benedetto XVI, Deus Caritas Est, punto 15)

La porta stretta, entro cui è necessario passare, richiama la necessità di fare fatica, a volte anche fisica, per raggiungere un risultato. Quando accade, capiamo il vero valore di quanto abbiamo ottenuto, perché la fatica ci consente di assaporare meglio la vittoria finale, proprio in virtù delle difficoltà incontrate per raggiungerla.
A volte, l’amore chiede di scorticarci un po’ la pelle, di ferirci le mani, di esporci in prima persona, senza protezioni, persino di lasciarci ferire (perché l’amore vero – inevitabilmente – ferisce). Sono le ferite dell’incomprensione, dell’ingratitudine, dell’arroganza, della supponenza. Perché l’amore gratuito non sempre riceve contraccambio e – diciamolo – ricevere pan per focaccia non è mai umanamente appagante: il nostro ego – è inevitabile – reclama un po’ di spazio per sé e zittirlo, anche solo per un momento, rappresenta sempre, nella vita di ciascuno, una delle porte più strette da attraversare.
È interessante notare come – anche in quest’occasione – la visione beatifica del volto di Dio è assimilata ad una mensa imbandita. È infatti implicito e pressoché riconosciuto ai banchetti, in modo universale, presso praticamente tutte le culture del mondo, la funzione emblematica di socialità e convivialità. Basti pensare che – molto spesso – persino nel grigio mondo degli affari – le trattative si concludono davanti a una succulenta “cena di lavoro”. A tavola, tutto si fa più lieve, più intimo, più confidenziale e persino le richieste più imbarazzanti sembrano quasi essere favorite dall’atmosfera familiare che è possibile creare intorno ad un desco ben apparecchiato ed invitante.
Risulta persino stridente rileggere questa pagina di Vangelo, in cui si parla di una mensa imbandita, pronta per tanti, quando lo Stato ha esatto Vincent Lambert, quale ennesimo sacrificio umano sull’altare di una ideologia mortifera che, rinnegando Dio, ha finito con il rinnegare anche l’essere umano, specie chi, nella fragilità, è costretto ad affidarsi alla cura altrui. . È toccato a lui, stavolta. Non in coma, come qualcuno millantò con voluta malizia, né in stato vegetativo: tetraplegico, non più in grado di comunicare verbalmente da dopo l’incidente, era però ancora capace di deglutire, “collaborando” con chi lo imboccasse. Non era in fin di vita. Tant’è vero che la sua agonia è durata 10 giorni: 10 giorni senza cibo né acqua, con il caldo estivo, significa che il suo corpo, pur disabile, era in salute ed ha combattuto, come un leone, per la propria sopravvivenza, coadiuvato, finché possibile, dalla battaglia legale portata avanti dai suoi genitori.
È incredibile pensare come quella semplice frase evangelica (Ho sete) abbia costituito la svolta vocazionale, nella vita di Santa Teresa di Calcutta, segnandone la direzione e dirigendola, come stella polare, verso qualunque bisognoso avesse necessità di essere amato, in Cristo.
Non entro nel merito di materia che non mi compete, ma un pensiero non posso non farlo. Sono come Vincent Lambert: anch’io dopo 10 giorni senz’acqua, muoio; anzi, probabilmente, per via della massa ridotta, a me basterebbe anche meno. Davvero, si può decidere di togliere acqua e cibo ad un uomo, spacciandola per pietà?
Se è così, davvero la “cultura dello scarto” (Jorge M. Bergoglio) ha vinto: l’uomo vale, solo finché è produttivo. La sua produttività equivale al suo valore, niente di più e niente di meno.
Eppure, se davvero è questa cultura a vincere, è l’umano a perdere: perché il valore di una persona puoi valutarlo proprio da come si rapporta con le persone da cui non può sperare nulla in cambio (Samuel Johnson).

 

Rif: Letture festive ambrosiane, nella V Domenica dopo Pentecoste, anno C – Gen 18,1-2.16-33;Rm 4, 16-25; Lc 13, 23-29


 Fonte immagine: Pixabay

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