Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Con l’indiscutibile audacia del pilota. O con la sollecita cura del giardiniere, tra roseti da potare e uomini da risvegliare. Non sono bastati settant’anni di storia per oscurare la figura di Antoine de Saint-Exupéry, lo scrittore-aviatore francese scomparso misteriosamente in volo il 31 luglio 1944. L’aristocratico decaduto, il pilota ardito, il papà letterario di quel Piccolo Principe la cui fortuna ha finito per adombrare tutta quanta la sua opera. Che è molto di più, che sta altrove, che in Saint-Exupéry abita sempre sub cortice mitis. Quella mattina – forse percependo il presentimento di una morte a portata di volo -, fu l’unica volta che si staccò da quella sua borsa di cinghiale regalatagli da Silvia che sempre portava con sé. La consegnò al comandante Gavoille: dentro, intrappolato nella vastità di 985 pagine dattiloscritte, c’era il manoscritto di un’opera dalla sconcertante bellezza: “Cittadella”. Settant’anni fa scompariva Antoine e fece capolino al pubblico questo unico suo lavoro pubblicato postumo. Quasi un testamento spirituale e letterario.

Un’opera la cui frequentazione mette a dura prova la pazienza del lettore ma che oggi rappresenta forse lo specchio e la sua memoria. In essa Antoine consegna alla leggenda tutti i suoi grandi temi: l’uomo e il silenzio, la responsabilità e il tempo, le navi e la casa, la tradizione e i giardini, le rose e Dio. L’infanzia: «Di dove sono io? Sono della mia infanzia come di un paese». Uno scritto dopo il quale, come confidò agli amici, tutto il resto – “Il Piccolo Principe” compreso – sarebbe parso solamente un esercizio. Saint-Exupéry non scrive per vivere ma vive per scrivere: per fare provvista di vita, di vastità, di umano. E’ l’intimo connubio che regge le sorti di “Cittadella”: tra poesia e vita, tra sogno e azione, tra mistero e visione. E’ l’accadere e l’accedere ad una verità che non può che essere simbolica. Com’è del cedro: «L’albero non è seme, poi stelo, poi tronco flessibile, poi legno secco. Non bisogna scomporlo per conoscerlo. L’albero è quel potere che lentamente sposa il cielo». Isolata, l’intelligenza disgrega; il sapere senz’anima è diavoleria.

In “Cittadella” c’è l’urgenza tipica delle grandi occasioni, quelle che possono mutare il corso dell’umano. L’uomo, però, non cambia in forza dei ragionamenti ma perchè toccato negli affetti. Com’è tipico della Scrittura stessa: non è diminuendo l’umano che si accresce il divino, ma la maturazione dell’umano è maggior divinità. E’ stare sulla traiettoria dell’Eterno. E’ il dramma che intesse quest’opera: l’uomo prova dei conati di vomito verso il mondo, ma la possibilità della pienezza è sempre lì, a portata di mano. Per sedurla occorre giocarsi tutto, avventurarsi sin quasi alla morte: «Io ho bisogno di abitanti nel mio impero, non di campeggiatori che non provengono da nessun posto». Perchè la creatura non deve disseccare, il Sahara non deve vincere. L’estetico non deve diventare anestetico. Una liberazione che chiede d’abbandonare la logica e rispolverare vecchie simboliche andate in disuso: l’intuizione e la percezione, la simbolica e l’estetica, la memoria e il desiderio, la passione e la nostalgia, la promessa e l’anticipo. Perchè l’uomo ha bisogno di fare esperienza di qualcosa che lo avvolga e rapisca, trattenga e anticipi, conquisti e alimenti. Che lo accenda: «Cittadella, io ti costruirò nel cuore dell’uomo».

Pagine abbozzate, alcune allo stato grezzo, altre incompiute. E non poteva essere altrimenti: «Una cittadella non la si può terminare. Io dico che la mia opera è terminata quando il fervore viene meno, semplicemente. Essi allora moriranno perché sono già morti». Incomplete e quindi vitali: a disposizione di tutti. Per inabissarsi nel banale alla continua ricerca del fondamentale. Per lasciarsi sorprendere da quel Dio che qui non è mai dato per scontato ma che sta appena dietro i riti e i giardini, le fontane e le danze, l’ansia e l’attesa. Ad un passo dal possibile: «Appari a me, Signore, perchè tutto è molto faticoso quando si perde il gusto di Dio». “Cittadella”: l’assenza di Dio come stordente annuncio di una più ardita presenza. Di un giardino per l’anima.

(da Avvenire, 31 luglio 2014)

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