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Più che di tanti pani, oggi il Vangelo narra di tante mani (liturgia della XVIII^ domenica del tempo ordinario). Di un’immane sorpresa: quella d’essere stati partecipi dell’ennesima sorpresa tracciata dal Vangelo: quella che da un’urgenza sa colorare un miracolo. Troppo facile – forse anche sfacciata – la soluzione dei discepoli al calar del sole: «Il luogo è deserto (…) congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». L’ingordigia di quel manipolo di uomini dev’essere stata cagione di fastidio nel cuore di Dio: badavano a loro, s’organizzavano le loro pance, si spartivano quel poco – ma era pur sempre qualcosa più del nulla che c’era attorno – tra di loro. Gli altri? Che se ne vadano: a casa, ai loro nidi, sulle loro coste. Mica spetta loro badare a tutta quella gente: ci pensi l’impero, sono affari di Roma, se la vedano con i loro potenti di turno. E’ facile dire nei Vangeli agli altri cosa fare: “andate, spostatevi, rincasate. Non rompete, non infastiditelo, lasciatelo stare”. Troppo facile, forse anche ingiusto se a dimenticarsi d’essere stati scelti sono proprio loro: non per vanagloria, non per privilegi, non per umani meriti. No: scelti per andare, moltiplicare, saziare e condividere. Sorpresi per poi sorprendere: nel nome della gioia. Che nei Vangeli è sempre doppia rispetto alla disperazione e alla noncuranza: «Vide una grande folla, sentì compassione per loro, guarì i loro malati». Gli occhi di Cristo: sempre puntati sull’umano ch’è sfinito. Occhi che profumano di pane:

Il pane gioca tanti ruoli! Nel pane abbiamo imparato a riconoscere un mezzo di comunione fra gli uomini, a causa del pane da spezzare insieme. Nel pane abbiamo imparato a riconoscere l’immagine della grandezza del lavoro, a causa del pane da guadagnare con il sudore della fronte. Nel pane abbiamo imparato a riconoscere il veicolo essenziale della pietà, a causa del pane che si distribuisce nell’ora della miseria. Il sapore del pane condiviso non ha uguale (Antoine de Saint-Exupéry)

La parte dunque s’inverte, ancora una volta. Loro suggeriscono a Lui il da farsi – “Mandali a casa, per favore!” -, Lui spiega loro la soluzione del problema, che è poi un’occasione non un intralcio: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare» Che era come dire: troppo semplice mandarli a casa nella speranza del Regno di domani. Il Regno di Dio – seppur con un semplice e quotidiano anticipo – doveva apparire davanti ai loro occhi. Davanti agli occhi dei discepoli che, per l’ennesima volta, mostrano di non aver forse capito la portata di quella Presenza che avevano addosso e che, ostinatamente, erano sempre sul punto di tradire. Per poi riaccreditarla di fiducia, di consolazione, di vicinanza. L’approvvigionamento è misero, poco, ridicolo: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci». Che non era poco, forse nemmeno tanto: era la porzione giusta per sfamare tutta quella moltitudine che, raccattata ai piedi del Cristo, cercava speranza per i loro giorni. Era davvero poco – forse la misura di una merenda tra amici – ma non avevano conteggiato la bilancia sulla quale sarebbe stato posto quel poco: le mani del Rabbì. Mani misteriose come i suoi pensieri, mani argute come il suo sguardo, mani miracolose come le sue parole. Mani di Dio, che tutto possono, che tutto vogliono, che tutto trasformano: «Portatemeli qui». Tutti seduti: a guardare la storia con gli occhi di Dio.

Il dopo di quella benedizione, come di tutto il Vangelo di oggi, è tutto un farfugliare di mani e di pani. Da quelle dei discepoli – quando il pane è poco – a quelle di Cristo. Per poi ricalcolare la traiettoria: da quelle di Cristo a quelle dei discepoli, da quelle dei discepoli a quelle della folla. Di mano in mano, di pane in pane, di sorpresa in sorpresa: la gioia passa sovente nello scambio di mani e di pani. Di frammenti di benedizione condivisa. Con quell’ultimo spettacolare particolare dei Vangeli, sempre all’erta a curare i dettagli: «Tutti mangiarono a sazietà». Come ai tempi di Mosè, quando la manna era in razioni giornaliere ma fresca e a misura di tutto Israele. Anche stavolta: non è stata una cena d’emergenza, una di quelle che si torna a casa con la pancia che brontola, qualche briciola tanto per far tacere lo stomaco. Tutt’altro: c’è stata sazietà e sovrabbondanza – «Portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene» -, stile ed eleganza nel fare di Cristo. Perché nessuno avvertisse d’essere stato motivo d’intralcio, di sbadato pietismo da parte di Cristo, di un comodo gesto di carità. Anche stavolta l’urgenza diventa prossimità, l’apparente maledizione viene scalfita dalla benedizione, il tramonto diventa aurora. Perché credere – con buona pace di quei discepoli ancor oggi sbigottiti dal vivere del loro Rabbì – non significa fare o non fare qualcosa. Credere è prima di tutto incontrare un Uomo che inverte le prospettive, che rimette in piedi la storia, che alla morale preferisce l’esempio. L’incontro con Cristo: siamo alle sorgenti del cristianesimo.


Una segnalazione editoriale

Nel mensile dell’Università Cattolica di Milano La Rivista del Clero Italiano del mese di luglio/agosto potete trovare una riflessione da titolo «Una periferia difficile. La voce di Francesco dentro le carceri». Non è una lettura da “sotto l’ombrellone” ma una rivisitazione dell’eco che le parole di Francesco stanno avendo dentro i vicoli contorti delle patrie galere. Vi allego l’abstract dell’articolo. La rivista la potete trovare in tutte le librerie cattoliche o acquistarla nel sito della rivista.

Questa appassionata nota di don Pozza, cappellano del carcere di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova, richiama un aspetto significativo di quell’attenzione privilegiata che papa Francesco sta mostrando per le “periferie esistenziali”: il mondo delle carceri. Esso si trova di fatto ai margini della vita sociale e della considerazione nelle nostre comunità. Il comportamento e le parole di Francesco invitano piuttosto a farsi prossimi a questo universo così difficile, per suscitare in coloro che vi consumano i propri giorni la speranza di una nuova vita: «Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore».

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