Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Dopo Noè, al termine del diluvio, venne il tempo di ripopolare la terra. E così ecco la narrazione di nomi e nomi, un lungo elenco di discendenze, associate a territori lontani. Il confine tra mito, storia e leggenda è ancora oggi impalpabile come una nuvola di fumo. Per quanto questi elenchi ci appaiano strani, dal sapore quasi favolistico, rispondono invece ad un normale desiderio dell’essere umano di ogni tempo e luogo: quello di ancorarsi al terreno su cui cammina. Come fiore fragile, che può essere abbattuto dal vento, l’uomo da sempre cerca di aggrapparsi a qualcosa di tangibile – in questo caso degli antenati, dei gruppi famigliari – per non essere trascinato dalla corrente, per far parte di qualcosa, per trovare aiuto e protezione.
Escluso il racconto della Torre di Babele, in questa lunga serie di dinastie Dio non viene mai nominato. In questa storia d’uomini, che si disperdono come rivoli di un lungo fiume, egli non mette becco. Li lascia fare, si ritira in disparte: sono sue creature, non burattini da manovrare a piacimento.
“Dio disse ad Abramo: – Va’ via dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò. – (Genesi 12,1)
Già vi sento, ci scommetto: tu hai appena affermato che Dio non tratta le persone come delle pedine e poi ci sbatti in faccia questo ordine dal retrogusto militaresco? Ma a che gioco giochiamo?
L’entrata in scena di Dio nella storia degli uomini ha un che di drammatico e poetico. Che sia storia, e non più mito, ce lo dicono due personaggi qualche riga più su. Sarah, la moglie di Abramo, è sterile. Haràn, fratello di Abramo, muore “alla presenza di suo padre” (Genesi 11,28). Due realtà nude e crude, quella di una donna che non può diventar madre, di una discendenza così spezzata, e quella di un genitore che si vede morire un figlio: non c’è più spazio per nessun idillio, la fragilità pianta le tende dentro ogni essere umano. Ma quella fragilità non è sola. Dio pianta la tenda accanto ad essa, entra nella storia insieme a lei. Non la elimina, ma la rende una lezione da imparare, un tesoro da custodire a vicenda. Non la elimina: se ne prende cura personalmente.
“Va’ via dalla tua terra.”
Più a gamba tesa di così, si muore. Niente convenevoli, niente smancerie. A leggere bene, nemmeno uno straccio di presentazione, come se lui ed Abramo si conoscessero da sempre.
I detrattori del Dio dell’Antico Testamento – quelli che “non può essere lo stesso Dio di Gesù!” – già si staranno fregando le mani, con un ghigno di soddisfazione. Come giustificare questo imperativo, questo comando che viene dall’alto, anzi, dall’Altissimo? Per loro sfortuna, non serve nemmeno un avvocato per perorare la causa divina. È sufficiente una traduzione letterale, una di quelle terra-terra, per regalare un cambio di prospettiva.
“Lek-Lekà!” recita l’ebraico. Un imperativo – il verbo halak, andare, camminare – ed un dativo. Ed in quest’ultimo è racchiusa tutta la differenza, come una perla nascosta da scoprire e da ammirare.
Vai-per-te via dalla tua terra.”
Per-te, dice Dio ad Abramo. Non per-me.
E’ meglio per te se vai via dalla tua terra,” potremmo tradurre senza tradire l’intenzione originale.
Non è un comando. Non è un ordine militare. Non è un’imposizione divina. È invece uno spalancare a piene mani un nuovo orizzonte.
Per il tuo bene, Abramo, non startene lì piantato: rischi di essere come un seme che si rifiuta di staccarsi dal fiore. Osa pensare in grande, viaggia oltre, perché solo così potrai trovare il modo di germogliare e portare frutto.
“Benedirò quelli che ti benediranno e chi dirà male di te io maledirò.” (12,3)
Rieccolo. Il Dio-despota che si vendica.
Vi piacerebbe, eh, cari detrattori! Ma la grammatica e la sintassi non sono opinioni, bastano tre righe nelle immediate vicinanze per tramutare la minaccia di Dio in uno sberleffo che ha del comico.
“Farò di te una grande nazione, ti benedirò […] e tu sarai una benedizione. […] In te si benediranno tutte le famiglie della terra.” (12,2-3)
In parole povere, chi è che parlerà male di Abramo? La risposta è semplicissima: nessuno. Quindi quante persone Dio dovrà maledire? Di nuovo, semplicemente: nessuno. L’universalità della benedizione di Abramo è come un abbraccio collettivo che Dio vuole dare agli esseri umani, tra i quali nessuno sarà escluso.

 

Prima lettura II domenica di Quaresima: 
Genesi 12,1-4: Il Signore disse ad Abram: «Vai via dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.

Fonte immagine: pexels

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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