Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

«Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio.» (1Cor 1, 27 – 28).

Forse, queste parole di san Paolo sono le parole più adatte per comprendere il legame tra le tre letture liturgiche della IX domenica dopo Pentecoste.
Nella prima lettura, dal secondo libro di Samuele, abbiamo l’episodio della danza del re Davide di fronte all’arca di Dio, che provocherà il disprezzo che, dalla finestra, lo considera uno spettacolo indegno d’un re. Danzando in modo così scomposto, infatti, Davide scopre le proprie nudità e di questo lo accusa Mical. Davide non si scompone né si pente di quel che ha fatto. La sua preghiera gioiosa, tanto da coinvolgere tutto il suo corpo era sincera nei confronti di Dio, per cui, considerando sincera la propria devozione, ritiene che la malizia possa abitare solo lo sguardo di chi guarda, non l’intenzione di chi, con una danza, voleva unicamente onorare l’arca di Dio.
Tutto sommato, in quest’occasione, il comportamento di Davide è davvero volto ad onorare Dio e il risentimento di Mical pare eccessivo. Piuttosto, sarà successivamente che Dio si adirerà con Davide, per il suo comportamento arrogante e prepotente, oltreché lussurioso: quando, spinto dalla brama di poter avere Betsabea, non esista a mandare suo marito (Uria l’ittita), fedele combattente, a morire in battaglia (cfr. 2Sam, 11). In quell’occasione, sarà il profeta Natan (cfr. 2Sam, 12) ad avvertire Davide del grave peccato commesso e del motivo della gravità, tramite una storia, a tutta prima, innocente, in cui si narra di due uomini, uno ricco che poteva vantare bestiame di ogni tipo, mentre uno era povero e non possedeva altro che “una pecorella piccina”. Davide si scandalizza del comportamento dell’uomo ricco, salvo essere avvertito dal profeta che lui si è appena comportato allo stesso modo.  In quel momento, Davide comprende; è come se gli si aprissero gli occhi all’improvviso: si rende conto del proprio peccato. Natan lo rassicura che il peccato gli è perdonato, ma il figlio che aveva avuto con la moglie di Uria sarebbe morto. Testimonianza che il peccato può essere perdonato ma che porta con sé strascichi di conseguenze negative, legate alla frattura dell’alleanza con Dio e, di riflesso, con gli uomini e con il creato.

Nel vangelo di Marco, le condizioni della sequela paiono contraddittorie, in linea, però con quella «stoltezza», di cui parla san Paolo:

«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. Infatti, quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita? Che cosa potrebbe dare un uomo in cambio della propria vita?» (Mc 8, 34 – 37)

Buona parte del paradosso di questo discorso è legato al problema della traduzione di ψυχή (psiche), che, come il greco, ha in sé i significati di vita, anima e persona. Perdere la vita è donarla, in vista della vita eterna, che può essere considerata la “vera vita”, quella connaturata alla nostra esistenza, ma anche lo scopo per cui siamo nati. A fronte della conquista della vita eterna, qualunque guadagno il mondo possa garantire impallidisce, perché, per quanto ingente possa rivelarsi, in ultima analisi, è comunque – anch’esso, effimero, destinato ad una conclusione. Al contrario, la vita eterna rappresenta, non tanto la fine (anche perché non ha fine!), bensì,  il fine cui ciascuno di noi tende – pur inconsapevolmente – anche solo con il nostro desiderio di durata, che, spontaneamente, sgorga al cuore ed alle labbra ogni qualvolta la Bellezza lo colpisce.

«Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (Mc 8, 38)

Questo richiamo alla prima lettura avviene tramite la vergogna: c’è una vergogna che – potremmo dire – deriva dall’infrazione di un codice convenzionale, viene dagli uomini, ma non è detto che trasgredisca davvero la volontà di Dio. Come quella che Mical vorrebbe indurre in Davide, a motivo della danza sconveniente.  Ma c’è anche una vergogna, che deriva dalla comprensione del male compiuto. Quella vergogna può avere effetti benefici – anzi: salvifici – perché ci consente di cambiare rotta. Se proviamo vergogna per qualcosa che abbiamo compiuto, perché non abbiamo agito secondo giustizia ed amore, quella vergogna può essere il primo passo che ci porta verso la riparazione del male compiuto.

A partire dalla Scrittura, l’invito è quello di sospendere – per un attimo – il giudizio. Perché, molto spesso, ciò che ai nostri occhi ha tutta l’aria di essere ignobile e disprezzabile, può invece diventare  fonte di salvezza, se affidato alle mani  di Dio. Così è della Croce di Cristo. Ma anche delle croci che ciascuno di noi porta nel cuore e che lo accompagnano.


Rif. letture festive ambrosiane, nella IX domenica dopo Pentecoste, anno B

Fonte immagine: WordPress

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