Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

{jcomments on}07 26 gdv f1 529 1 copia“Anche Dio è un carcerato, non rimane fuori dalla cella”: è forse una sue espressioni più forti e umane in questi primi nove mesi come successore di Pietro. Con papa Francesco la periferia è diventato il leitmotiv del pontificato e anche la Chiesa di Padova, come tante in Italia e nel mondo, sta rispondendo all’invito di papa Bergoglio ad andare incontro alle esistenze troppe volte dimenticate.
E così nella casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova, ogni domenica, a fianco del suo cappellano don Marco Pozza, a presiedere le due sante messe del mattino c’è, a rotazione, un vicario foraneo della diocesi. Una novità silenziosa del nuovo anno pastorale della diocesi patavina caldeggiata dal suo pastore mons. Antonio Mattiazzo e un modo per conoscere una realtà esistenziale ed ecclesiale sui generis.
Domenica scorsa è stato il turno di don Antonio Guarise, da pochi mesi alla guida del vicariato di Thiene (VI) che con le sue 17 parrocchie, per un totale di 45 mila anime, risulta essere il terzo vicariato più popoloso sui 38 della diocesi di Padova.
‘La visita di don Antonio – spiega don Pozza – si inserisce nel progetto “La domenica di periferia” con il quale quest’anno vogliamo far entrare nella nostra parrocchia del carcere i vicari foranei della Diocesi di Padova. È solo toccando la realtà che si potrà, poi, immaginare assieme percorsi comuni con chi ha scontato un periodo di detenzione’. Se ci si limita a conoscere la letteratura di un luogo – incalza don Marco – ‘saranno possibili solo mille interpretazioni, che quasi mai corrispondono alla realtà, perdendo, tra l’altro, il privilegio di conoscere uno spaccato di umanità dove Cristo è all’opera quotidianamente’.
Don Antonio, parroco della Conca e amministratore parrocchiale di San Vincenzo, ha detto, nel corso dell’omelia, di essere stato molto colpito dal clima interno al carcere e sorpreso da quanto più avanti siano i detenuti rispetto a lui. ‘Basta solo guardare il modo con cui si accorgono dell’altro salutando in ogni occasione, anche se magari non ci si conosce; al di fuori, nella società – ha constatato don Guarise – spesso noi siamo ciechi e piuttosto tiriamo dritti’. Per dirla con le parole di padre Alex Zanotelli: ‘I poveri ci evangelizzeranno’.

Don Antonio, è la prima volta che è entrato in un carcere?
Sì, per me è stata la prima volta.

Quali sentimenti ha provato varcando i cancelli di un carcere di massima sicurezza?
Inizialmente un senso di oppressione, quando i numerosi cancelli che mi erano stati aperti, venivano uno dopo l’altro scrupolosamente richiusi a chiave dietro di me. Poi, a mano a mano che nei corridoi interni ho incominciato a incrociare persone (guardie carcerarie, detenuti e volontari esterni) quella che subito mi era sembrata una gabbia mi si è mostrata come una “cittadella cosmopolita” gravida di umanità, dolente ma capace di impastare tra loro, in un’unica esperienza condivisa, tante storie di persone pur sempre diverse tra loro. Alla fine mi sono sentito a mio agio, coinvolto nella trama di relazioni senza maschere che si intesse tra persone impegnate a riconciliarsi con la propria storia.                

Dopo i vicari di Campodarsego (PD), Arsiè (BL), San Giuseppe in Padova, Piove di Sacco (PD) e Asiago, domenica scorsa ha celebrato lei in carcere. Come mai questa tourneé presbiterale in carcere?
È un modo per far entrare la “parrocchia-comunità del carcere” nel novero delle parrocchie-comunità della Diocesi.

Domenica scorsa, il Vangelo ci presentava la figura di Giovanni Battista che si trovava proprio in carcere… Questa parola di Dio letta tra le sbarre che effetto ha avuto?
L’effetto di un ribaltamento della prospettiva. Mi sono chiesto se non siano proprio i luoghi apparentemente avulsi dalle logiche del Vangelo, come può essere un carcere, a dare concretezza agli aneliti del Regno di Dio che animano la storia, più delle nostre “polverose” realtà ecclesiali.   

Come vede la presenza della Chiesa all’interno delle celle?
Di vitale importanza. La Chiesa ha i “numeri” per umanizzare una realtà potenzialmente disumana e disumanizzante.

Domenica scorsa, lei ha incontrato il cappellano del carcere don Pozza, figlio della terra thienese. Come vede il suo ministero tra i detenuti?
Ritengo che don Marco stia recuperando, nell’ambiente carcerario, l’immagine di Chiesa e di sacerdote che era tipica di tale ambiente. Il suo modo diretto di relazionarsi con le persone, lo costituisce sicuro riferimento per i detenuti sempre bisognosi di essere accompagnati oltre “lo smarrimento” tipico di chi vive costretto in una cella.

Una risposta

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