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Come apprendiamo dal libro del Deuteronomio, prima di entrare e prendere possesso della terra assegnata da Dio, questi fa delle raccomandazioni, di vario tipo («Non si trovi in mezzo a te chi fa passare per il fuoco il suo figlio o la sua figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o il presagio o la magia, né chi faccia incantesimi, né chi consulti i negromanti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore»), ma che potremmo racchiudere in una sola: non uniformarti ai popoli che incontrerai, non perdere la tua unicità!
Risulta tremendamente attuale un simile richiamo, in un mondo, che, al contrario, ci spinge ad essere tutti uguali, a mangiare tutti le stesse cose, indossare gli stessi vestiti, seguire gli stessi programmi di intrattenimento e, se per caso, ciò non avviene, sei quanto meno guardato come “strano, insolito”, una specie di animale bizzarro fuggito dallo zoo e catapultato in un luogo di “tutti-uguali”. Ciò è – forse – particolarmente chiaro tra adolescenti, dove il confronto avviene su tanti aspetti e, spesso, da questi dettagli deriva il “dentro-o-fuori” da un gruppo di coetanei.

Anche il Vangelo ci invita a riflettere sul valore della libertà e se siamo veramente liberi, oppure ci illudiamo di esserlo. Proprio durante la festa delle Capanne, nella quale il tempio risplendeva di luce, Gesù dice di essere “luce”. Ben presto, il dibattito si accende: gli si fanno attorno i Giudei esperti della Parola di Dio, mentre la folla, intorno, si limita ad ascoltare.
Ai Giudei, che propongono una fede basata sulla tradizione e sul “vanto nazionale” dei legami di sangue di appartenere alla tribù d’Israele e d’essere stirpe d’Abramo, giunge l’invito di Gesù a superare questa riduttiva della fede, che rischia di essere rinchiusa entro gli angusti confini di una pratica sterile, incapace di approfondire le questioni più profonde e toccanti dell’essere uomini.
La Parola di Dio si è manifestata in Gesù Cristo, Parola fatta carne. Si manifesta, ogni giorno, tramite chi si sforza di applicare il Vangelo nelle pieghe della proprio storia. Come può, ma con tutto se stesso. Sono quelle le parole a cui prestare ascolto, parole che tentano di farsi carne, come il Figlio si è fatto carne.
Nel finale, c’è la rivelazione forse più esplicita che Gesù dà della propria divinità, nell’intero Vangelo, espresso in termini che sono fin troppo percepibili, per un ebreo. In quella semplice sentenza («prima che Abramo fosse, Io Sono»), troviamo, infatti, con la traduzione letterale del nome di Jahvè, la certificazione del vero motivo per cui Gesù si è fatto uomo: “che conoscano il Padre” (Gv 17). Cosa segue a questa rivelazione? Non certo un tripudio, né il riconoscimento della messianicità di Gesù. Tutt’altro. I Giudei raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio (Gv 8,59).
Dio esce dal tempio. Significativa la conclusione del brano evangelico: i Giudei, credendo di “fare giustizia”, nel tentativo di mettere in chiaro quale sia la vera fede. Eppure, nel vano tentativo di uccidere il Messia prima del tempo, riescono solo a far sì che il tempio rimanga vuoto, privo di Dio. Immagine eloquente di come anche noi, se viviamo una fede che si nutre – solo – di pratiche esteriori, ma manca del contatto con la Presenza divina, rischiamo di vivere in un perenne equivoco, per cui ci avviciniamo a Dio, ma non ne sperimentiamo mai la vicinanza. Perché, in realtà, non gli permettiamo di entrare nella nostra interiorità: non ci affidiamo totalmente a Lui e preferiamo, invece, lasciarlo fuori da quegli ambienti in cui la Sua presenza ci risulta sgradita.
Potremmo, d’altra parte, pensare anche al popolo d’Israele, che ci presenta la Prima Lettura: i quarant’anni trascorsi nel deserto (che noi ricordiamo nel “tempo forte” della Quaresima) sono serviti proprio a costruirne l’identità. Del resto, anche noi siamo chiamati a “fare deserto” (con un periodo più intenso di preghiera, riflessione, digiuno, carità verso i fratelli) per costruire la nostra identità. Dio vuole che noi siamo esseri originali, non scialbe fotocopie, che si traduce nell’impegno a diventare la più bella versione di noi stessi. In un mondo che ci vorrebbe tutti uguali, serve preparazione, audacia e volontà, nonché carattere forgiato. Ecco perché serve il deserto. Ciascuno di noi ha i propri pregi e i propri difetti: sono strumenti a nostra disposizione, affinché, come un buon collaudatore, impariamo a portare al massimo l’attrezzo che abbiamo tra le mani, dal momento in cui veniamo al mondo: noi stessi. Troppo spesso, infatti, giriamo al minimo e, distratti dal rumore che ci circonda, non avvertiamo il suono del motore della coscienza, che – già da un pezzo – ci sta invitando a cambiare marcia.

Rif. Letture festive ambrosiane, nella III Domenica di Avvento, Anno C, detta “di Abramo” : Dt 6,4a;18,9-22; Sal 105; Rm 3,21-26; Gv 8,31-59


Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove

Fonte immagine: Pixabay

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