Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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In questi giorni, si fa un gran parlare di “ripartenza”, giustamente.
Dopo un fermo durato qualche mese, tutto deve ripartire, risollevarsi, rialzarsi. Il governo aiuta come può le imprese, dà soldi, bonus di ogni sorta: per le vacanze, la mobilità sostenibile, per i nonni, le baby-sitter, i centri estivi, la riqualificazione degli immobili.
Ripartire e rilanciare, quindi, un paese che ha risposto bene e meglio di tanti altri ad una crisi pandemica. Un classico dell’amata Italia e dei suoi abitanti che sempre, nelle difficoltà più drammatiche, hanno saputo rispondere coraggiosamente.
Si parla molto anche di come debba ricominciare la scuola a settembre, con quali modalità, quali strumenti di contenimento.
Si cerca di capire come dare il meglio ai figli di questa nazione grande, come garantir loro la miglior qualità didattica anche in tempi difficili. I genitori si preoccupano, si chiedono che tipo d’impatto avrà su di loro questo inizio inaspettato, come sarà il loro primo varcare le porte della scuola.
Mentre il fiume di notizie monotematiche scorre indisturbato, ecco sopra il pelo dell’acqua la fotografia sfuocata di un bambino, di un altro figlio, di un altro mondo.

È una notizia di quelle che commuovono e durano qualche giorno, per finire poi sul letto del fiume.
È un bambino che andrà a scuola come tutti gli altri. Ha una sorella, una mamma. Il papà no, è stato ucciso in un agguato. È ivoriano, viene dall’Africa. Ha sette anni, l’età mitica dei giochi e della spensieratezza.
Lui però quest’estate non ha avuto tempo per i balocchi, né tanto meno di coccolarsi nella letizia di chi è senza pensieri. Ha dovuto escogitare un piano per approdare non tanto in Italia, ma tra le braccia della madre, una ragazza di ventidue anni, fuggita dalla Costa d’Avorio per scampare alla fame e a una situazione appesa al filo di una guerra civile.
Juniò era stato lasciato in Libia, uno degli inferni fuori terra visibile a tutti. Per la mamma e per la sorellina gemella troppo rischioso rimanere lì, in un luogo dove stupri e violenze sulle donne sono la prassi quotidiana di esseri diabolici. Ma cosa fare? Soprattutto, si tormentava la donna, come si fa ad abbandonare un figlio, lì, in terra libica, nell’inferno? Deve scegliere in fretta: o porta la figlia, o porta il figlio. La figlia, pensa, sparirebbe nel nulla, venduta o stuprata da chissà chi. Juniò invece è un maschio, forse avrà qualche possibilità. Lo affida ad un’amica ivoriana, nella speranza che un giorno possano ritrovarsi.
Parte con la piccola e arriva in Italia.
Juniò invece rimane lì, sulle soglie dell’Occidente, con lo sguardo rivolto non all’Italia, ma alla mamma.
La donna a cui è affidato non vuole però saperne di attraversare il mare su un barcone malandato.
Così, senza eroi, né velieri, con lo slancio epico che può avere solo un bambino che vuole riabbracciare la terra che lo ha generato, si divincola dall’amica poco interessata all’impossibile ricongiungimento.
Fa quasi tutto da solo. Riesce a trovare contatti tra la sua gente, s’informa sulle carrette inferme che salperanno per l’Occidente e alla fine, dopo cinque mesi, riesce a passare indisturbato tra i bracconieri d’uomini, si mimetizza tra i connazionali che, durante il viaggio, lo tengono nascosto come un uovo nel ventre del peschereccio.
Recuperato da una barca-salvezza, finisce poi su un’altra, in quarantena, una sorta di lazzaretto galleggiante per i profughi positivi al virus. Lui, forse, non sa nemmeno cos’è e anche se fosse, sarebbe l’ultimo dei suoi problemi. Alla fine, riabbraccia la madre amata.

Ripensando a Ulisse, alle sue eroiche gesta, epiche e mitologiche, vien da chiedersi se non sia più grande questo piccolo d’ebano, imbarcatosi come l’eroe acheo per raggiungere Itaca, la sua Itaca: non un’isola familiare, non una terra di rocce e alberi, ma la propria madre.
Non i demoni in carne e ossa, non i pericoli di una terra straniera, non il mare infinito e una barca trasandata, né i timori di un’età fanciulla hanno potuto fermare l’amore di questo bambino. Omnia vincit amor, scrive Virgilio. Pare proprio vero.

Il famoso cordone si recide davvero alla nascita? O non rimane forse tutta la vita questa catena che ci lega a quel grembo, a quella terra da cui siamo sorti?

E crea sgomento pensare che, mentre noi discutiamo, giustamente, perché qui sta la civiltà, sul metro o più di distanza, ci siano bambini che attraversano i mari in solitudine. Quanti ce la faranno? Quanti Ulisse come Juniò sapranno cavarsela? Quanti invece finiranno nelle grinfie dei demoni o sul fondo muto del mare? Intanto, si può dire sollevati, uno è arrivato ed è come aver salvato un Regno.

Il fiume, nel frattempo, continua a scorrere e con lui un video commovente dell’abbraccio del bambino con la madre e la sorella, ancora un attimo e già non si vede più.

 

Rif. Avvenire: Juniò, abbandonato in Libia, si ricongiunge con la mamma a Crotone


 Fonte immagine: Pexels

Alberto Trevellin (Padova 1988), laureato in scienze religiose prima a Padova, poi a Venezia, è insegnante di religione. Sostiene che i bambini salveranno il mondo e che senza di essi non potrebbe vivere. La mattina, quando si sveglia, guarda verso il monte Grappa, per il quale ha un amore smisurato. Ama camminare tra le alte cime delle Dolomiti, correre in mezzo ai boschi, andare per sentieri sconosciuti. È sposato con una donna che crede affidatagli da Dio e ha due bambine bellissime quanto vispe.

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