Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

roveto

Il brano liturgico proposto nella VI domenica dopo Pentecoste ci introduce in un episodio famoso della vita di Mosè: quello del roveto ardente. Nonostante la fama lo preceda, è importante contestualizzarlo nell’economia della storia di Mosè, oltre che di quella della salvezza.
Mosè, il bambino salvato dalle acque, è un individuo che cerca se stesso. Nato da ebrei, svezzato da ebrei, cresciuto tra egiziani, come un egiziano; una volta adulto, vede la sofferenza del suo popolo e, con l’impulsività della giovinezza, il ruggito della vendetta lo spinge all’omicidio. Il faraone lo cerca per ucciderlo, ma Mosè sfugge alla sua vista, arriva fino a Madian, dove difende le figlie del sacerdote dai pastori. Per ricompensarlo, questi gli dà in moglie una delle sue figlie. Mosè si stabilisce quindi presso Madian.
Ed è qui che lo troviamo, a pascolare il gregge. Una situazione, quindi, di quotidiana ordinarietà. Una “nuova normalità”, in un certo senso: in fase di ricostruzione, dopo il periodo trascorso a palazzo reale, presso gli egiziani, prima che quella vendetta facesse precipitare le cose e lo rendesse sgradito agli occhi del faraone.
Quel giorno, però, si spinge, insieme con il gregge, più in là del solito, «oltre il deserto», fino a raggiungere l’Oreb, «il monte di Dio». Come ad un appuntamento implicito, lì lo attende il Signore.

Un roveto che arde e non si consuma accende la curiosità dell’uomo e lo spinge ad avvicinarsi, per provare a capire. Attirato dalla curiosità, si ritrova irretito da Dio.
Un Dio che si presenta come uno “di famiglia”, che trova la propria ragion d’essere nei padri e negli antenati, in  quel mondo retto da legami di sangue e di fiducia, che era quello dei clan e delle tribù, in cui lo stesso popolo d’Israele era suddiviso.

È in questo contesto che avviene la chiamata di Mosè all’azione, con un tono che sa di ufficialità:

«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l’Ittita, l’Amorreo, il Perizzita, l’Eveo, il Gebuseo. Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!».

Un Dio che osserva e ascolta, che raccoglie il grido d’aiuto e il dolore sordo degli oppressi, che non dimentica il proprio popolo e che vuole spronarlo a guardare con speranza oltre la situazione contingente, che parla di sofferenza ed oppressione.  Guardare oltre, per vedere possibilità nuove e migliori, perché, direbbe Manzoni, “Dio non toglie mai la gioia ai suoi figli, se non per preparargliene una migliore”.
Già questa descrizione è una novità enorme rispetto a divinità – agenzie, specializzate ciascuna secondo un ambito diverso, a seconda delle necessità (la fertilità, la pioggia, il matrimonio…), così come rispetto ad un Pantheon di divinità antropomorfe e un po’ capricciose, fondamentalmente disinteressate di cosa accada agli uomini sulla terra.
Un Dio che agisce, dunque, ma mai senza la collaborazione degli uomini.

E Mosè pare perplesso proprio per questa scelta:

«Chi sono io per andare dal faraone e fare uscire gli Israeliti dall’Egitto?»

«Chi sono io?» domanda Mosè. E non è facile comprendere se lo domandi più a Dio, oppure a se stesso. Se non approfitti di questa situazione per guardarsi in faccia e avere – finalmente – il coraggio di domandarsi chi sia. Quel coraggio che forse cercava da tempo, dopo anni vissuti a metà strada, con i piedi in due scarpe, la nostalgia del proprio sangue, ma anche l’esperienza di crescere in mezzo ad un altro popolo, quasi – come – loro. Una situazione confusa.

La risposta di Dio non si fa attendere ed è spiazzante:

«Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte»

Una parola, forte come una promessa. Non ti preoccupare di chi sei tu. Perché tu, da solo, non riesci a definirti. Ti deve bastare una cosa: “Io sono con te”. Non è un’affermazione, è molto di più: è una promessa. Perché se Dio si fa garante, che altra garanzia si potrebbe pretendere?
Mosè, però, è molto più pragmatico. Sa che la sua situazione non è semplice. È un ebreo vissuto con gli egiziani, fuggito di fronte al pericolo, cui è chiesto di tornare agli israeliti, per dir loro di lasciare ogni sicurezza e seguirlo.

Ha bisogno di dare un nome a Dio come noi abbiamo bisogno di assegnare un volto ai nostri affetti. Non basta un codice fiscale, un numero, un  semplice riconoscimento.
Un nome è un pensiero incarnato in un volto. «Io-Sono» è il nome di Dio: dice la pienezza dell’essere, perché «da Lui tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia» (Gv 1,16).

Solo specchiandoci nel volto di Dio, potremo capire anche chi siamo noi, tra mille contraddizioni e ibridazioni, che ci fanno dubitare di poter trovare, anche per noi un nome “in eterno”, con cui essere ricordati e a cui guardare con speranza e riconoscenza.


Rif. Prima lettura festiva ambrosiana (Es 3, 1-15), nella VI domenica dopo Pentecoste, anno B

Fonte immagine: Google

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy