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“Non avrebbe continuato neanche un giorno a fare il pastore, se non ci fossero stati nella Bibbia “i versetti della gioia”. Papà li chiamava così. Sono tutti quelli che cominciano con “State sempre lieti”, “Gioite nel Signore”, “Cantate canti di gioia”. Un giorno papà era tanto triste e si mise a contarli. Sono 800! Diceva che se Dio si era dato pena di esortarci per 800 volte ad essere contenti, doveva essere importante.” (E. Porter, Pollyanna)

La piccola Pollyanna, un’orfana di undici anni, sconvolge con modi come questi la vita degli abitanti della cittadina in cui si è trasferita dopo la morte dei genitori. Celebre è il “gioco della felicità” che le ha insegnato il padre, pastore protestante: diversamente da quello che si può pensare, non si tratta di essere gioiosi a tutti i costi e a scapito degli altri, ma di saper trovare sbocchi di positività anche in quelle situazioni in cui tutto ti sembra dire “sii triste e abbattiti, non puoi farcela.” Nel celebre romanzo – e nel suo seguito, Pollyanna cresce – quel gioco passa di bocca in bocca, di personaggio in personaggio, una sorta di contagio inarrestabile che dona conforto e speranza, aiuto concreto nei momenti bui che inevitabilmente accadono. Il messaggio della protagonista e della sua creatrice è limpido e semplice: la felicità non è vivere privi di qualsivoglia evento doloroso, ma è saper trovare in essi la forza di reagire, anche avendo il coraggio di chiedere aiuto alle persone che ci circondano.
Che siano proprio 800 ricorrenze, come diceva Pollyanna, non è propriamente esatto, ma il numero della felicità(*) nella Bibbia è comunque considerevole. Solo nell’Antico Testamento, e tenendo conto delle sole forme verbali, compare ben 177 volte, di cui 55 nei Salmi. Se estendiamo la conta ai sostantivi e abbracciamo anche il Nuovo Testamento – pensiamo ad esempio all’inno di gioia delle Beatitudini, o i numerosi inviti a rallegrarsi nelle lettere paoline – la cifra cresce fino a raddoppiare ed oltre.
La felicità biblica, innanzitutto, non è mai una questione di isolamento. Chi gioisce non lo fa mai da solo.

“Gioirete davanti al Signore, vostro Dio.” (Dt 12,12)
Il re troverà in Dio la sua gioia.” (Sal 63,12)
Il giusto gioirà nel Signore.” (Sal 64,14)

Qui la relazione con gli altri, soprattutto con Dio, è più importante che mai. La questione non è tanto linguistica, quanto squisitamente teologica e sociale: una gioia genuina è un dono da condividere, un tesoro da spartire, un’emozione che può essere contagiosa. Tanto ieri come oggi: chi di voi, quando si sente così tanto felice da essere “al settimo cielo”, non prova l’irrefrenabile impulso di comunicare la propria contentezza a qualcuno, spesso con una telefonata o anche con un messaggio condiviso sui social?
Nessun uomo è un’isola, scriveva Thomas Merton, ed è vero tanto nei momenti difficili quanto soprattutto in quelli felici, nei quali si consolidano le reti sociali e se ne stendono di nuove.
In tutto questo Dio non se ne sta a guardare come uno spettatore pigro e passivo seduto scompostamente sul divano di casa, ma si fa protagonista della gioia insieme alla sua creatura amata con tutto se stesso.

“Gioirete davanti al Signore”, in quel “davanti” l’ebraico sprigiona tutta la sua potenza evocativa, regalando l’immagine di creature “al cospetto” del loro Signore, in modo molto simile a quel che accadeva nelle corti regali. Dio non è lontano dalla felicità umana, anzi chiede che essa venga celebrata alla sua presenza, quasi una festa in cui domanda d’essere invitato.

“Il giusto gioirà nel Signore.”
Come si fa a gioire in qualcuno, ve lo siete mai chiesti? Probabilmente qui si allude ad un pensiero di ringraziamento a Dio, un fugace inchino di gratitudine fatto con il pensiero per la felicità ricevuta. Ma di un Signore che se ne sta in un angolino lontano, mentre l’uomo si gode i frutti di una felicità genuina, la Bibbia non sa che farsene. E così l’ebraico ci regala, per la seconda volta, un Dio-festaiolo, perché il giusto gioirà “con” il Signore, recita il senso letterale.
Al Dio biblico sta a talmente tanto a cuore la nostra gioia che il primo a fare festa insieme a noi è proprio lui. Non gli basta stare ad osservare, ma scende direttamente in campo, è felice della nostra felicità, è lì vicino, pronto a regalare il suo abbraccio di contentezza, sorridendo con noi e per noi.
Altro che Dio burbero, lontano dall’uomo e dalle sue emozioni, come ancora in troppi pensano riguardo al Signore dell’Antico Testamento. Anzi un Padre che non vede l’ora di assistere alla gioia dell’uomo, ai suoi successi fatti di piccole e grandi cose, di dichiarazioni d’amore, di momenti condivisi, di sorrisi di gratitudine e incoraggiamento.
Facciamo pure i salti di gioia senza timore alcuno, Dio non disdegna di saltare insieme a noi.
Piangiamo pure di commozione per l’amore che qualcuno ci regala inaspettatamente, Dio non disdegnerà di asciugarci le lacrime, sorridendo con tenerezza.
Poiché la nostra felicità è anche la sua.

(*) Per semplicità in questo articolo scelgo di accorpare gioia e felicità in un unico stato emotivo, dato che nell’Antico Testamento non c’era ancora la distinzione odierna – maturata con gli studi di psicologia delle emozioni – tra emozione (gioia) e stato transitorio (felicità).
Fonte immagine: Disney & Pixar’s Inside Out Movie.


 Prima parte: Tu chiamale, se vuoi, emozioni (Parte I)

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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