Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Quando siamo felici, o innamorati, si dice che sentiamo “le farfalle nello stomaco”, una sensazione di solleticante leggerezza tra le più belle del mondo. Quando proviamo paura entrano in gioco i modi di dire “avere la pelle d’oca” o “tremare come una foglia”. Infine, a qualcuno è mai capitato di trovarsi faccia a faccia con una persona che è “verde d’invidia” o “rossa come un peperone” per la vergogna?
Nel corso dei secoli emozioni e stati d’animo hanno trovato i modi più pittoreschi per essere espressi a parole e quasi sempre – in moltissime lingue – s’è attinto al vasto panorama della fisicità umana. La ragione è semplice, una psicologia spicciola compresa millenni addietro: quello che proviamo ci coinvolge in modo totale, a livello mentale e corporeo, si manifesta dentro e fuori di noi; il lessico si è naturalmente adattato a questo coinvolgimento, preferendo coniare giochi espressivi piuttosto che parole del tutto nuove.
L’ebraico biblico non si differenzia per nulla da questa prassi linguistica ed anzi ci regala delle vere e proprie perle che ogni tanto fanno sorridere di gusto il traduttore di turno.
Una delle emozioni più raccontate nell’Antico Testamento, e di sicuro la più bizzarra per il giro di parole che la contraddistingue, è la rabbia. Essa riguarda tutti: uomini comuni, persone scelte da Dio nel cammino dell’Alleanza, ed ogni tanto anche la divinità stessa.

Giacobbe si irritò contro Rachele.” (Genesi 30,2)
L’ira del Signore si accese contro Mosè.” (Esodo 4,14)
Davide si arrabbiò con quell’uomo.” (2Samuele 12,5)

Ognuno di questi personaggi ha le proprie motivazioni per essere arrabbiato, ma per tutti loro l’espressione è identica: “wayyihar-ap” è un provare ira tramite… il naso.
Sì, avete letto bene. La rabbia, secondo le lingue semitiche, è l’equivalente di una miccia che si accende all’improvviso, una sorta di esplosione interiore che trova come unica via di sfogo proprio il naso che, per la forte emozione, diventa caldo. Di colui che prova collera, quindi, si dice in modo letterale che “gli si scaldò il naso”, un turbamento potente e difficile da controllare.
Ad un primo impatto questo modo di dire può sembrare davvero molto strano, ma se ci pensiamo bene perdura invece vivo e vegeto anche nel nostro linguaggio comune, quando per esempio usiamo il verbo “scaldarsi” per esprimere in modo colloquiale l’atto di arrabbiarsi. O quando, smartphone o computer sotto mano, manifestiamo il nostro stato d’animo non con le parole, ma con quelle simpatiche faccine chiamate emoji o emoticon. Fate una prova, andate a dare loro un’occhiata, vi siete mai accorti di quella furibonda con le nuvolette di fumo che escono dalle narici?
Per un gran numero di esseri umani che si arrabbiano verso i loro simili, c’è invece un Dio che prova collera solo in alcuni momenti di particolare rilevanza e quasi sempre in modo pedagogico e mai fine a se stesso, mentre per la maggior parte degli eventi è descritto come “lento all’ira e grande nell’amore” (Salmo 102,8).
La pazienza di Dio è uno dei temi cardine dei racconti dell’Alleanza e il nucleo di alcuni Salmi. E’ un’attesa che non comporta indifferenza o passività da spettatore un po’ distratto, ma è quella Misericordia che lascia che l’uomo compia i propri passi, talvolta anche sbagliati, purché egli impari a trovare da solo la propria strada. La troviamo messa a dura a prova con Abramo, che contratta per la salvezza di Sodoma e Gomorra in cambio di dieci giusti (Genesi 18); è nascosta tra le pieghe della storia di Giuseppe, venduto dai fratelli, in attesa di un nuovo incontro con loro e di un perdono pacificatore. E’ proclamata a gran voce nei Salmi ed è il vessillo dell’uomo dei dolori (Isaia 53), quel giusto sofferente che si ammanta di pazienza e docilità e che si lascia mettere nelle mani dei suoi aguzzini, affinché sia la gloria di Dio ad avere l’ultima parola sul male degli uomini.
Così come era stato per la rabbia, il naso entra in gioco anche per l’incalcolabile pazienza divina e ci regala un giro di parole che nel suo significato letterale è ancora più curioso del precedente, ma che a livello teologico è pura poesia.
Se infatti per chi prova collera si usa l’espressione “avere il naso che si scalda”, chi è incredibilmente paziente non potrà che possedere un naso che non s’infiamma in modo tanto facile.
E così il Dio biblico “lento all’ira” è colui che possiede “narici lunghe/lontane”: “erek appaim”, recita l’ebraico, senza nessuna intenzione comica o canzonatoria, ma con la massima serietà di chi s’aggrappa al vissuto quotidiano per cercare di descrivere una divinità incommensurabile nella sua perseveranza ad amare gli uomini.
Un naso che è al plurale – anzi duale, ovvero doppio – come due sono le narici: una pazienza, cioè, raddoppiata, che supera incredibilmente quella umana e che si riversa sulle creature in maniera doppia rispetto a quanto esse possono immaginare. Un naso che è lontano, inteso anche in senso geografico della distanza spaziale: Dio tiene lontana da sé la manifestazione della rabbia. E’ paziente per sua stessa volontà, perché la sua essenza è quella Misericordia che, fattasi Uomo, preferirà amare spalancando le braccia e lasciandosele inchiodare ad una croce, piuttosto che alzarle per colpire e per incutere terrore.

Fonte immagine: Disney & Pixar’s Inside Out Movie.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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