Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

bellezzaLei non si smentisce mai. D’altronde me l’aveva ripetuto ad oltranza in questi anni di frequentazione amorosa: “a chi nasce bello/a tutto è concesso”. E la bellezza trova sempre alleati lungo la strada per difendersi dai pretendenti che la inseguono a perdifiato: la pioggia, la neve, il fango, l’arsura, il gelo. Oppure il caldo e il vento contrario come ieri. Ma tant’è: splendore e magia di chi sa di tenere in tasca una bellissima metafora dell’esistenza stessa. E la vita è questa. Chapeau, donna Maratona.

La corsa – L’ho archiviata come la più tremenda delle sei maratone che ho corso sinora. D’altronde a chi odia il mare e i tropici preferendo le alte vette e le vallate di montagna, il caldo non è mai stato fonte di simpatia: meglio correre con il termometro vicino allo zero come lo scorso novembre a New York. E’ stata una maratona corsa ai limiti della sopportazione che, però, non mi fa rimpiangere nulla della preparazione fatta e degli stimoli giganteschi raccolti. Dopo il 7° km (frazione fatta come un metronomo) le ondate di caldo che giungevano dall’asfalto mi hanno fatto capire che non sarebbe stata la mia giornata: quando cessava il caldo (complice qualche passaggio nel parco e all’ombra dei palazzi) sopraggiungeva il vento contrario: diciamo che la Natura s’era ben alleata con la Maratona ieri. Al 21° km (il passaggio alla Mezza Maratona) il tempo era rispettabilissimo con la sua proiezione sulle 2h 45m. Si tiene duro, si fanno tutti i rifornimenti, si beve e ci si integra a dovere: infatti dei crampi nessuna avvisaglia fin sotto il traguardo. Eppure il tranello ieri stava nascosto al 26° km, appena dopo aver circumnavigato il Duomo con i suoi lastroni. A quel punto non so cosa sia successo ma l’andatura si è notevolmente appesantita e il caldo ha iniziato a battere sulla testa. Quel chilometro è stato lo spartiacque tra la bellezza e la bruttezza, tra la magia e il rimprovero, tra la vittoria e la sconfitta. La fortuna è stata quella di trovare lungo la strada una voce amica che – al pari di una vecchia condottiera – non m’ha mollato un secondo e mi ha ricordato che prima d’essere un atleta sono un prete che deve dare l’esempio. E le sconfitte vanno gestite con nobiltà facendole diventare un’occasione di “educazione sportiva applicata”. I rimanenti 17 km m’hanno svelato per la prima volta (non si finisce mai di imparare) l’altra faccia della maratona, quella che si combatte nelle retrovie e che un domani rimarrà l’attestazione più credibile di un lungo inseguimento per raggiungere il quale a volte s’è costretti a raschiare il fondo del barile.
Sotto il traguardo il timer m’ha dato ciò che mi spettava: 3h 04′ 58″. Questo è lo sport e questa è la vita: una lunghissima forma di seduzione che annovera tra i suoi stratagemmi il tentativo folle di infiacchirti fino a farti ritirare. Dalla competizione o dall’esistenza. Ma per chi lotta – come dice il sottotitolo del mio primo romanzo – “la sconfitta è l’arma segreta dei vincitori”. Con un’accortezza: stavolta non Le dirò più fino alla fine il posto in cui la sfiderò la prossima volta. Di una cosa stia tranquilla: aprile non lo sceglierò più come palcoscenico dei miei tentativi: troppa bizzarria nel suo calendario naturale!

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Il dietro la corsa – Seduto per terra al 26° km ho sentito due voci contrastanti lottare dentro di me finchè mi dissetavo: l’atleta diceva “molla!” (per non usurare il fisico ad oltranza) il prete diceva “non puoi mollare!” (c’era anche un discorso educativo alle spalle da portare avanti). So di essere un maratoneta atipico: dentro i muscoli ci abita uno sportivo sfegatato e indomabile ma dentro l’anima ci abita un sacerdozio colorato che non ho meritato ma che mi è stato dato in dono. Sotto sforzo la linea di demarcazione è sempre labile da individuare e a volte si corre il rischio di fraintenderla: per questo ci abitano gli amici e tutti quelli che s’aggregano ad un grande sogno di sacerdozio giovane. Per tre volte, correndo dentro l’Inferno di caldo, ho sentito l’urlo eccitato di chi correva le staffette per beneficenza. Dietro quelle staffette e la loro euforia c’era una sofferenza alla quale dare voce: la sofferenza delle malattie, dei vari handicap, di una miseria da riscattare, di un corpo da riottenere. Sentire che più di cinquemila persone urlavano la loro gioia di esserci e di correre per organizzare la speranza nel cuore del mondo è stato l’incitamento mentale a non mollare. E, seppur traballante, passare sotto lo striscione. Perchè ci sono persone che – fuori dallo sport – sudano, lottano e s’intestardiscono per non mollare. Al traguardo tenevo degli amici con i quali da anni condivido il mio sacerdozio; lungo la strada ne tenevo altri quattro (mio fratello Sandro, Elena, Enrico e Andrea) che hanno dato il loro sudore per Smarathon: sentirli urlare al mio passaggio e vederli così presi nella loro staffetta è stata una vittoria commovente (oltrechè rispettosa e onorabilissima per il tempo ottenuto).
L’altra motivazione è la voce di una ragazza che nello sport ha raccolto e raccoglierà la gloria, le medaglie e gli arcobaleni: un orgoglio dello sport nazionale. S’è organizzata con i suoi allenamenti (la campagna del Nord e il Giro d’Italia chiedono concentrazione massima) e al 23° km lo trovata lungo la strada. Forse Lui sapeva che laggiù, appena dietro il Duomo, la testa avrebbe chiesto aiuto. Puntuale me l’ha fatto trovare l’aiuto. E quando ho iniziato a lamentare la fatica, ho veramente capito che ai fuoriclasse genetici tu ci devi saper parlare. Bastava poco per rompere l’incantesimo e entrare nella Metropolitana. Bastava dire cose stupide e scontate: “onora la preparazione fatta, pensa a chi ti aspetta al traguardo, comunque è un’altra maratona finita, domani scriveranno che sei arrivato seppur dolorante”. Motivazioni frivole che non mi avrebbero acceso dentro il minimo lucignolo. Ebbene, dopo quattro km percorsi dietro in silenzio e dicendomi solamente “buona giornata, campione”, al 28° km (in piena zona crisi) m’ha sorpassato e guardandomi nel volto mi ha semplicemente detto: “Non ti puoi ritirare, non sarebbe un esempio educativo per i ragazzi che andremo incontrando nelle scuole. Devi mostrare loro che la sconfitta va gestita e la corsa onorata”. Non ho mosso ciglio ma quelle parole m’hanno rimesso in piedi e m’hanno vietato per i km futuri a non mollare più la presa. Magari in quattro ore e camminando ma il traguardo l’avrei raggiunto. Perchè da sacerdote c’avevo una responsabilità educativa da trasmettere. M’è rimasta solo una nostalgia che, a maratona conclusa, ho confidato ai miei amici mentre sfrecciavamo sulla Milano-Venezia: che quell’indicazione mi sia giunta da una voce che non era la mia. Ne sono stato un po’ geloso ma poi ho ringraziato Lui perchè questa è stata l’ennesima conferma del fatto che Lui usa chi vuole per parlare al mio cuore. E in un momento di fatica ai limiti della sopportazione Lui sapeva che non ci poteva essere voce più bella e credibile di una ragazza che, facendo dello sport la sua ragione di vita, s’è aggregata ai miei sogni per mostrare anche l’educazione che lo sport t’addestra ad imparare.
E’ stata la mia maratona più bella. Perchè ho capito che lo sport è davvero una forma di grandissima educazione. Verso se stessi prima di tutto.

L’organizzazione – Un plauso speciale agli amici de La Gazzetta dello Sport – e agli altri organizzatori che ci hanno messo l’anima, la forza e la passione (ampiamente dimostrate e dimostrabili) per portare un sogno sportivo a Milano. La maratona è una leggenda nobile, è una magnifica favola sportiva, è un alfabeto d’impareggiabile fascino. Organizzarla a Milano è sempre più un’impresa folle perchè è una città che alle leggende che hanno scritto la storia preferisce le balle elettorali che sporcano i muri e ne approfittano dello sport. Eppure ieri la maleducazione di un certo popolo milanese (quello che ai semafori insultava e bestemmiava il passaggio della leggenda) è stata vinta dalla civiltà di oltre milleduecento staffette che, magari partite con atleti da altri paesi, hanno ricordato al popolo ricco come la solidarietà vinca l’inciviltà di chi, seppur sfrontato nei soldi, deve ancora imparare l’educazione. Ma è un sogno che crescerà: perchè ieri davanti al Castello Sforzesco c’era anche una Milano che ai suoi diecimila turisti con “visto sportivo” ha regalato un sorriso o, molto più semplicemente, non li ha insultati.

No ci resta che sognare. E accendere i motori per il prossimo viaggio che, siamo sicuri, ci farà sentire un po’ più maturi come atleti ma, sopratutto, come uomini di speranza in un futuro migliore. Goodbye, Milano!

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