Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Salmo 131

La Prima Lettura che ci propone la liturgia, nella III Domenica di Quaresima, ricordata come “Domenica di Abramo”, ci mostra il patriarca Mosè costretto a ritornare da Dio per rifare le tavole della Legge.
Cos’era successo, nel frattempo? Ritornato dal monte Sinai, trova il simbolo del tradimento, il vitello d’oro che il popolo aveva costruito, mentre lui era via. L’ira ha la meglio su di lui e le tavole finiscono in frantumi.
Da questo nasce il ritorno al Sinai, durante il quale scaturisce una meravigliosa invocazione, che si dimostra particolarmente attuale in questo periodo:

«Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità» (Es 34,9).

Leggiamo le notizie e tutto ciò che sembrava solo un’ipotesi lontana, diventa una realtà vicina, quasi palpabile. Un’epidemia che dilaga, mettendo in crisi la sanità proprio nelle aree in cui essa era considerata un fiore all’occhiello, scene di panico e di isteria, rivolte nelle carceri. In tanti, forse, si erano illusi, che sarebbe durato poco. La realtà, invece ci sta mettendo alla prova, dando luogo, a macchia di leopardo, ad insofferenze e malumori. Anche chi all’inizio scherzava, ora ha preso consapevolezza che la questione è seria e necessita una forte responsabilità personale, a vantaggio di tutti.
Ora, le domande si fanno più profonde e ci domandiamo se Dio c’entri in tutto questo, se “lo permetta” o lo “voglia”. Non c’è risposta migliore di questa: Dio cammina con noi. È accanto a noi, quindi, tra noi.
Non ci abbandona neanche un attimo e, anzi, come un papà nei confronti del figlio, quando è spaventato, triste, disorientato, lo prende in braccio, perché non si perda d’animo.
Come racconta una storia, di un anonimo brasiliano:

 Questa notte ho fatto un sogno,
ho sognato che camminavo sulla sabbia
accompagnato dal Signore,
e sullo schermo della notte erano proiettati
tutti i giorni della mia vita.
Ho guardato indietro e ho visto che
per ogni giorno della mia vita,
apparivano orme sulla sabbia:
una mia e una del Signore.
Così sono andato avanti, finché
tutti i miei giorni si esaurirono.
Allora mi fermai guardando indietro,
notando che in certi posti
c’era solo un’orma…
Questi posti coincidevano con i giorni
più difficili della mia vita;
i giorni di maggior angustia,
maggiore paura e maggior dolore…

Ho domandato allora:
“Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me
in tutti i giorni della mia vita,
ed io ho accettato di vivere con te,
ma perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti
peggiori della mia vita?”

Ed il Signore rispose:
“Figlio mio, Io ti amo e ti dissi che sarei stato
con te durante tutta il tuo cammino
e che non ti avrei lasciato solo
neppure un attimo,
e non ti ho lasciato…
i giorni in cui tu hai visto solo un’orma
sulla sabbia,
sono stati i giorni in cui ti ho portato in braccio”.

 

Nell’Epistola, san Paolo, di fronte ad una comunità cristiana di origine giudaica, che metteva al primo posto la legge mosaica, ci tiene a porre alla loro attenzione un altro modello: quello di Abramo. Non si tratta, naturalmente, di una contrapposizione tra quelli che possono essere considerati i capostipiti della fede ebraica, quanto, piuttosto, una scelta funzionale alla sottolineatura che a Paolo preme di fare. Vale a dire: la legge che lascia Gesù supera quella mosaica, perché più esigente ed ambiziosa, perché richiama l’uomo ad andare oltre il suo istinto e a volgersi verso il sogno di Dio sull’uomo. Si appella dunque ad Abramo, perché è il padre dell’ignoto (che parte dalla propria terra, senza alcuna certezza), colui che fa affidamento ad un Dio che si manifesta in modo sbalorditivo, ma anche andando contro alla logica spontanea (si pensi all’episodio del sacrificio di Isacco, in Genesi 22). Ai tempi di Abramo non c’era ancora il Decalogo. Ai tempi di Gesù non solo c’era il Decalogo, ma anche l’interpretazione rabbinica, la Legge e i Profeti. A quell’epoca, era chiaro cosa significasse “maledetto chi pende dal legno”: era la più infamante delle condanne a morte. Ironia della sorte, proprio quella toccata a Cristo, per la salvezza dell’umanità. Ecco perché, al Venerdì Santo, quella che era un’infamia, diventa per noi uno strumento di morte da salutare, con gratitudine (Ave, Crux, Spes unica). Cristo ha accettato di divenire maledetto agli occhi di molti, affinché noi potessimo diventare benedetti dal Suo sacrificio e sperimentare quella comunione con il Padre, che fa gola a chiunque avverta l’armonia che regna tra loro.

Dev’essere stato così anche per i Giudei che lo interrogano, nel brano evangelico (probabilmente, spinti o – comunque – influenzati dalle autorità giudaiche). Il dialogo è, sin da subito, serrato e “senza esclusione di colpi”, come in ogni duello verbale che si rispetti.
Alla richiesta di rimanere fedeli alla Verità, per conoscere la reale libertà, gli interlocutori lasciano cadere la prima e, sulla difensiva, mettono avanti Padre Abramo, iniziatore della fede, sulla cui discendenza fondano la base della propria libertà. Gesù ne approfitta per chiarire cosa sia davvero la libertà. Tornando ai dieci comandamenti, spesso visti come una limitazione, siamo tentati di vedere il peccato come qualcosa da evitare, che, quindi, ci mette dei confini da non oltrepassare. Gesù smaschera il tranello del Diavolo (che ci mostra, sin dalla Genesi, come vittima dell’inganno di un Dio) e ci dice, senza mezzi termini, che è il peccato a metterci le catene ai polsi e ad ingannarci, creando in noi dipendenza e svilendo il nostro uomini.
Per la serie excusatio non petita, accusatio manifesta, dopo che Gesù li accusa, genericamente, di fare le opere «del padre vostro», la risposta è: «Noi non siamo nati da prostituzione». Considerando come, nell’Antico Testamento (in particolare, nel libro del profeta Osea), l’immagine della prostituzione fosse utilizzata proprio per rappresentare l’idolatria, non è da escludere che il riferimento a cui voglia condurre l’evangelista possa essere proprio quello di suggerire che l’atteggiamento messo in campo dagli interlocutori di Cristo sia, al netto delle eventuali buone intenzioni, di chiusura all’ascolto della Parola di Dio, unicamente focalizzato sul rispetto delle norme, senza però approfondirne lo spirito più profondo. Che significa, quindi, esclude di andare oltre, come l’amore può invece suggerire.
Cristo stesso, del resto, non ha solo seguito i comandamenti. Non perché li abbia infranti, ma perché è andato oltre, approfondendoli sulla base dello spirito della legge che ad essa soggiace. Non si è accontentato di amare il prossimo, ha dato la vita per i suoi nemici, è morto in croce per chi lo accusava, per Pietro che lo ha rinnegato, per Giuda che lo ha tradito, per me che lo tradisco ogni giorno. Cristo non ha solo rispettato i Comandamenti: ha amato fino alla fine. È per questo che siamo chiamati a guardare Lui, quando ci domandiamo come debba essere l’amore.

Non è, però, facile, oggi come allora, farlo. Perché significa accettare la potestà di Dio («Io Sono» è l’attributo divino) sulla nostra vita, che richiede la nostra adesione alla Sua volontà, anche quando non la comprendiamo e preferiremmo sommergerla di pietre, come fanno i suoi interlocutori. Ma la Parola non si lascia scalfire dal nostro rifiuto e rimane ad interrogarci, se abbiamo il coraggio di affrontarLa.

 

Rif: letture festive ambrosiane, nella III Domenica di Quaresima (“di Abramo”): Es 34, 1-10; Gal 3, 6-14; Gv 8,31-59


Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove

Fonte immagine: figliedellaChiesa

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