Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Londra (Heatrow) – New York, ovvero l’incrocio di una moltitudine di storie, di avventure e di pensieri. La magia di una città che per una settimana si trasforma nel più grande raduno ecumenico mondiale mostrando che lo sport tiene la capacità di unire le genti come nemmeno la Chiesa a volte riesce. La gente corre: ognuno con un riscatto da raccontare e una speranza da condividere. Non amo l’America, ma l’aria della Grande Mela m’ha stregato il cuore donandomi quella serenità che vorrei poter condividere con la mia terra veneta duramente provata dall’alluvione in questi giorni. Ma sicuramente capace di risorgere come insegna la nostra millenaria storia.

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La vigilia – Una vigilia lunghissima, iniziata i primi giorni di settembre attorno a quel Lago di Lavarone (TN) dove stava germogliando il sogno di un progetto tutto nuovo: raccontare e testimoniare ai giovani lo sport in versione educativa. La sfida era ardua e inedita, quel giusto che bastò per allacciare i nostri passi e iniziare a costruire in sordina quello che aleggiava nei nostri cuori. La corsa è sempre stata un pretesto, la carota, anche se il pretesto più bello e la carota più gustosa: ciò che affascina il cuore di don Camillo e Peppone è raccontare il “lato B” della maratona: pensieri, sogni, aspettative, crisi e risalite. Speranza, fantasia e sopportazione. A New York siamo sbarcati con oltre 1300 km d’allenamento, dieci settimane tirate sul filo del rasoio (non è sempre facile far combacciare il prete fedele, lo studente appassionato e l’atleta caparbio nella stessa giornata) e l’entusiasmo inaspettato che strada facendo si è creato attorno a noi. Sono sbarcato per la fiducia di due amici un po’ speciali: La Gazzetta dello Sport (con Manlio Gasparotto in primis e Fausto Narducci) e De Agostini Scuola (nella figura del dott. Roberto Devalle e Francesco Turletti, diventati amici per altre “imprese” in dirittura d’arrivo). La fiducia è sempre qualcosa di unico: raccoglierla fuori dal mondo della Chiesa è qualcosa di meravigliosamente bello, perché non scontato e ancor più credibile. A New York ci siamo arrivati per dare un senso a tutto questo.

Ma anche per correre e onorare la fiducia.

 

La gara – Che fosse una maratona dura, esigente ed esagerata me l’avevano raccontato in tanti, il mio Peppone in primis. Ma a me le sfide piacciono e cercare di spostare un limite – fosse anche solo del pensiero o dell’immaginazione – è un qualcosa che mi strega sin dall’infanzia. Sul Ponte di Verrazzano domenica mattina tirava un vento gelido (4°) e un’aria ricca di tensione, seppur mascherata dall’emozione. Ero partito con un sogno grandissimo in tasca: rimanere per lo meno sui tempi del mio record personale (2h 48′ 28″ firmato a Padova 2010). Ma sapendo anche che sotto le tre ore sarebbe stato comunque un risultato nobilissimo su un tracciato così severo ed esigente. Ma ogni buon maratoneta sa che alla fine, al di là dei progetti e delle aspettative, è la strada a sistemare le idee e organizzare il piano di viaggio. La partenza in salita, l’affiancamento per qualche centinaia di metri con il gotha dell’atletica mondiale e quel tifo scatenato, furioso e colorato della gente di New York m’hanno messo nel cuore la voglia di onorare sino in fondo la gara. I tempi erano rischiosi da mantenere (dalla sala stampa Peppone seguiva i passaggi e si disperava dalla paura che poi don Camillo saltasse) ma oramai si era iniziato a ballare. Una piccola crisi sul lunghissimo ponte del Queensboro in salita prima dell’inizio della First Avenue (il luogo del ritiro del grande Gebrselassie), un piccolo cedimento alla testa e subito dopo la ripartenza, spinto da una furiosa ovazione all’ingresso della Prima Via. Il dopo è stato tutto un cercare di tenere duro sulle colline di Manhattan. Il “tocca e fuggi” nel Bronx, l’entrata e l’uscita da Central Park e l’ingresso finale (anticipato da Peppone che urlava sul tracciato) dentro una bolgia umana in pieno e completo delirio. Gli ultimi cinque chilometri ho spento tutto, chiuso le orecchie e spalancato gli occhi: nell’anima mi è rimbalzato il celebre discorso di Al Pacino nello spogliatoio. E’ stata una carica furibonda che mi ha permesso – “centimetro dopo centimetro” – di arrivare sotto il traguardo mordendo fino all’ultimo la strada che teneva i lineamenti dell’Inferno.

E raccogliendo un tempo di 2ore 48minuti e 58secondi: la strada dopo il traguardo somigliava al Paradiso. Appena trenta secondi sopra il mio primato personale.

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Gli incontri – Esserci a New York ha anche significato la possibilità di stringere mani e condividere il nostro sogno con tantissima gente. Un sogno esagerato se penso di aver stretto la mano e scambiato due parole con il Re della Maratona, l’etiope Haile Gebrselassie (con lui nella foto sopra). La sua è una storia diventata favola nel mentre era ancora in attività: 2 ori olimpici sui 10mila, 4 mondiali e un titolo mondiale nella mezza maratona, 27 primati del mondo stabiliti in carriera (dai 5000 alla maratona). E’ suo il primato mondiale sulla maratona (il primo uomo sulla terra a scendere sotto le 2h 04 minuti), sull’ora di corsa, sui 20mila in pista e sui 10mila su strada. Una leggenda, la “fantasia della fatica” come l’ha definito La Gazzetta dello Sport. Pensare di avergli stretto la mano il sabato e la domenica aver partecipato alla sua ultima corsa (finita con un ritiro al 25° km) m’ha colorato ancora di più questo progetto e la voglia di migliorarlo. E poi la stretta di mano e i complimenti dell’oro olimpico di Atene 2004, Stefano Baldini (con lui nella foto sotto), che si è congratulato e mi ha incentivato a raccogliere nuove sfide. La conoscenza fatta a colazione con Pier Bergonzi, una delle firme storiche di Gazzetta, leggendo i cui articoli mi sono innamorato del ciclismo anni addietro. La maratona è anche questo: un incrocio di volti, di storie e di sfumature che arricchiscono il viaggio della vita.

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Il progetto – Adesso è il tempo dell’altra faccia della medaglia, per costruire la quale stiamo lavorando nel nascondimento da mesi. In queste prossime notti prenderà forma la parte finale del romanzo che sto scrivendo, inizieranno a viaggiare i personaggi che mi hanno tenuto compagnia in queste dieci settimane di ispirazione e allenamenti, perfezioneremo un cortometraggio girato tra il Veneto e gli Stati Uniti. E poi inizieremo a condividere la nostra fortuna di uomini felici con i tantissimi ragazzi che incontreremo prima della Maratona di Milano 2011, in casa della Gazzetta e della De Agostini. Un viaggio che io e il mio Peppone faremo in compagnia di tanti amici e campioni che gratuitamente stanno accettando di fare un pezzo di strada con noi. A loro – ad Alex Schwazer in primis, autore di una bellissima prefazione – il grazie per l’umanità, la simpatia e la generosità con cui hanno accettato la scommessa di un prete matto e di un giornalista appassionato per tentare di dare uno scopo alla fatica della giovinezza. E anche il lato prettamente sportivo sarà esigente e al limite: d’altronde per mettere in moto nuovamente i passi occorrono sogni altissimi!

 

Riparte l’areo: destinazione Milano – Al Terminal 5 di Heatrow stanno chiamando il volo per Milano-Linate. Ci imbarchiamo, sapendo che quella non sarà solo la destinazione di oggi, ma la destinazione finale del nostro progetto. Che poi anche quella potrebbe essere solo l’inizio di un connubio inedito e fresco tra sport e fede. M’imbarco con una promessa: nei prossimi giorni mi spetterà un dovuto e riconoscente grazie a chi – la maggior parte nel nascondimento – sta rendendo possibile quest’avventura. Senza di loro le gambe non basterebbero e nemmeno la buona volontà: li ringrazio al volo, ma a loro dedicherò parole pensate e pesate quanto prima.

 

New York, ti amo. Ma non mi basti più

Arrivederci. Welcome to Milano 2011.

E siamo solo all’inizio: ma è già diventato emozionante ballare!

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