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All’agosto s’abbinano sovente verbi e immagini di riposo e di sollazzo, dopo mesi di fatiche e di pensierose avventure: le “ferie d’agosto” e le vacanze, il riposo e la villeggiatura, lo stacco dal lavoro e la tintarella sotto l’ombrellone. D’agosto si scarica la fatica e si caricano le batterie: per una nuova tranche di impegno, per un nuovo anno di scuola, per un nuovo pezzo di cammino. Qualcuno in agosto preferisce lavorare, rimanendo in città mezze deserte: «Vivere in città ad agosto, andare al mare a giugno, è l’ultima aristocrazia e la rara eleganza del villeggiante» (P. Desproges). In qualunque modo lo si viva, il mese che fa capolino è sempre un mese un po’ strambo, forse per quella sua intima fisionomia: ai primi d’agosto la luce è quella dell’estate, coi suoi colori, odori e musiche; a metà del mese qualche impercettibile sfumatura fungerà da avvisaglia di qualche piccolo mutamento. Di un’estate che se ne sta andando.

Eppure dell’agosto si potrebbe ben dire ciò che i vecchi maestri del ciclismo dicono dell’inverno: che le vittorie che consacrano un campione si costruiscono d’inverno. Quando, cioè, la stagione ciclistica è addormentata, quando gli appuntamenti sono ancora lungi dall’accadere, quando l’agonismo della gara s’affievolisce e l’ozio s’intestardisce a bussare ogni mattina alla porta degli uomini. E’ d’inverno, però, che si mettono le fondamenta: quelle sulle quali poi si potrà costruire una stagione. E’ d’agosto, dunque, che si può ripartire con una nuova lena, forti di qualche intuizione di freschezza, ancor più motivati magari da qualche vicissitudine di percorso. Dai tempi del liceo classico il mese d’agosto l’ho sempre immaginato come la “stagione del rabdomante”, perchè m’aveva affascinato l’espressione con la quale Jacques Maritain – una delle menti più geniali del Novecento – definiva se stesso: «Forse sono anche una specie di rabdomante con l’orecchio incollato alla terra, per captare il mormorio delle sorgenti nascoste, l’impercettibile fruscio delle germinazioni invisibili». Con l’orecchio per terra (oltre che con i piedi ben piantati a terra): per imparare a leggere dentro l’intricato vagare del nostro quotidiano i segni di una speranza che si ostina a non morire. Per saper cogliere, magari in calce ad un anno funesto e furibondo, piccole reliquie di una gioia che non è ancora andata perduta. Per percepire, magari sotto il solleone di ferragosto, che non ancora tutto è andato perduto. C’è ancora margine per poter recuperare: un contratto di lavoro, una storia d’amore, un’epopea familiare. Un germe di speranza.

L’ombrellone è lo “stemma comunale” del mese d’agosto. Sotto gli ombrelloni – i nuovi bazar dell’epoca moderna – piccoli dettagli s’annunciano come altrettante profezie. C’è chi tiene pile di giornali patinati dal gossip e dalle dicerie, chi s’affossa nel lettino e si mette a divorare i grandi volumi che hanno fatto la storia del pensiero, chi – munito di carta e di penna – getta sui fogli pensieri, mezze poesie, trame di qualche piccolo racconto. Visto che le previsioni del tempo non ne azzeccano una in questa estate così variopinta e altalenante, c’è forse l’occasione per fare qualche altra previsione: quella d’indovinare come sarà il pensare dell’uomo nel prossimo autunno. Potrebbe essere una stagione di frasi fatte o di qualche intuizione fresca di novità. Ci saranno ancora i soliti luoghi comuni o l’uomo scoprirà una terra nuova sulla quale organizzarsi i ragionamenti? Dovremmo ancora convivere con la stupidità di certi intrighi o avremmo l’ardire di tentare nuove traiettorie? Cosicché agosto, che ad un primo acchito sembra il mese della svogliatezza ufficializzata, appare come il mese più delicato. Il tempo propizio per scegliere come vivere i mesi a venire: da campeggiatori o da cittadini. La differenza potrebbe stare tutta qui.

(da Il Mattino di Padova, 3 agosto 2014)

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