Si è seduta sul binario come nulla fosse la ragazza immortalata da Maria Murphy, giornalista di GB News. Dopo essersi seduta, poi, s’è messa nella posa più sexy possibile per farsi scattare la foto: “Scusa, non è che potresti farmi una foto? (…) Non sono venuta bene: rifalla! (…) Ho gli occhi chiusi, non vedi?” Una foto scattata sul binario di una stazione è un qualcosa di romantico: il treno, coi binari, da che mondo è mondo racconta viaggi, pensieri, posti tenuti liberi per il grande amore che sta per salire alla prossima stazione. Fotografarsi seduta su un binario, quando non passa il treno, ha un qualcosa di magnetico. D’amoroso, appunto: «Le ferrovie – scrive Mukarami – sono qualcosa di sorprendentemente silenzioso, quando non ci passa sopra un treno». Quando il binario ritratto nella foto sotto il sedere di quella ragazza, non è il binario che porta a Birkenau, una delle macellerie naziste dell’orrore dove il genio di Hitler si divertiva a “gasare”.

Il binario di Birkenau – come quelli di Auschwitz, Westerbork, Mathausen – purtroppo non è più un semplice binario di ferrovia: è diventato, suo malgrado, il simbolo dell’orrore, della follia, della bestia ch’è capace di diventare l’uomo nel momento in cui si scorda di non essere Dio. Non sono binari qualsiasi: sono dei “binari morti”, sono una memoria vivente, l’emblema di viaggi costruiti apposta per non far più viaggiare l’uomo: lo straniero, il diverso, l’avverso. Su quei binari sono arrivati a Birkenau vagoni con stipata dentro una percentuale umana che solo ad immaginarla produce un senso di vergogna e di orrore così grande che, ancora oggi, qualcuno cerca di negar l’evidenza. Dicendo: “non è stato” o, se è stato, non è stato come lo racconta la storia avversa a quella di quei macellai.

Sedersi su quel binario per scattarsi una foto (col sorriso in posa) è come salire sopra il cadavere di una persona e dirgli: “Porta pazienza, è che se mi siedo sopra di te la foto prenderà più like”. Solo qualche anno fa, la fotografia serviva per custodire un ricordo, per rendere eterno il batticuore. Oggi vale nella misura in cui diventa “produttrice di like”. Poco importa, allora, se quel binario di Birkenau custodisce i pianti, le urla e i gemiti di un popolo che non andava in vacanza. Di gente che non si poteva mettere in posa. Nessuna condanna per la ragazza ritratta: accade così ovunque, ormai. È che, guardandola, mi è venuta in mente Etty Hillesum, una ragazza che su quei binari avrebbe volentieri fatto a meno di passarci. Dal vagone di un treno che la stava portando ad Auschwitz dal campo di smistamento dove si trovava, getta un biglietto: «Abbiamo lasciato il campo cantando». In quel suo canto libero non c’era niente da ridere. C’era la spensieratezza di una ragazza che seppe sgonfiare il male con un canto libero.

(da Specchio de La Stampa, 23 aprile 2023)

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(La foto è tratta dal profilo Twitter di Maria Murphy, giornalista e producer di GB News)

4 risposte

  1. Condivido appieno il contenuto, don Marco.
    Visto, però, che la fotografia è funzionale ai like e non a ricordi da custodire, sarebbe proprio il caso di una riflessione sul valore formativo dei viaggi nei luoghi della Shoah.
    Che senso ha visitare, quando manca la consapevolezza di una partenza verso l’ignoto e senza ritorno?
    Il problema non è la ragazza, ma l’assenza del perché? e del per chi? ogni azione si compie.
    Questa assenza, deliberata dalla “confort zone” cui stiamo formando le nuove generazioni, ratificata anche dalla Carta internazionale del fanciullo (1989), non può che produrre situazioni simili. Solo diritti, nessun dovere! Diritto al gioco, all’istruzione, al tempo libero, etc.
    Ma dove siamo? Nel mondo dei balocchi?
    Non ho mai partecipato né parteciperò ad Uscite didattiche: noi, sedicenti cittadini del villaggio globale, avremmo bisogno di riscoprire il senso dello studio che, certo, non sarà certificabile ma ci allenerà al rispetto di Fatti ed Eventi.
    Rispetto e Silenzio.
    Rispetto e Silenzio anche delle generazioni precedenti, di quelle che non hanno mai partecipato a viaggi d’istruzione e che sicuramente hanno espresso una sensibilità più delicata della nostra.
    Nel 2019 ho ascoltato Liliana Segre a Milano, in un Convegno dal titolo: “Fare i conti con la nostra storia”.
    Mi è bastato, per capire come stanno le cose…

    1. Sono stata a Mathausen,non sono riuscita a scattare nessuna foto. In quei posti dove il dolore è grande,non riesci a scattare foto. Mi aspettavo più sensibilità da parte di una giornalista…. magari anche solo più intelligenza.

  2. Grazie don Marco per queste riflessioni che come è tua consuetudine “provocano” e non lasciano “dormire” le nostre anime e i nostri cervelli. Io credo, però, al contrario che questa ragazza abbia una grande responsabilità e quindi dare genericamente colpa alla società sia deresponsabilizzare il singolo e non centrare il problema. I mezzi per capire l’atrocità dell’Olocausto ci sono e sono numerosi; ma, poi, subentra il libero arbitrio, così sacro a Nostro Signore. Io non sono andata in quei luoghi, ma ho parlato con ragazzi che sono tornati veramente provati da quei viaggi/studio. Quindi, perdona la mia franchezza, ma a noi la scelta di non capire se stiamo facendo un selfie in spiaggia oppure su luoghi che gridano e grideranno in eterno orrore e disperazione e che, pertanto, dobbiamo rispettare come suolo Sacro.
    Per finire, Ti sto seguendo e sono riuscita a portare anche mio marito a Monte Berico. Sono incontri sempre molto densi di emozione. Grazie! Rossella

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