Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Nella VI Domenica di Pasqua, proseguiamo nelle letture tratte dagli Atti degli Apostoli, che ci accompagneranno fino alla celebrazione della Pentecoste. Il riferimento è sempre al capitolo terzo degli atti, implicitamente considerato n ella II Domenica dopo Pasqua (cfr. Ai piedi del Risorto ).
Pietro e Giovanni, dopo aver guarito uno zoppo, per intercessione del nome di Cristo, sono chiamati a rendere testimonianza del fatto, perché tale evento ha suscitato fin troppo clamore: questo è il contesto in cui Pietro prende la parola, spiegando quale sia l’origine del miracolo per cui lo zoppo della “porta Bella” di Gerusalemme ha potuto camminare.
«Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo» (At 4, 11): Pietro cita il Salmo 117, che intende riferirsi al tempio d’Israele, ricostruito, dopo essere stato distrutto, nonostante l’opposizione dei nemici. La pietra angolare, in un edificio, mi insegnano gli amici architetti, è quella più robusta, che, in quanto posta angolarmente, riceve le maggiori sollecitazioni. Pietro applica questa immagine a Gesù stesso, ‘rinfacciando’ ai capi d’Israele il rifiuto di Cristo.
Cristo, lo Scarto degli scarti. Ecco perché si trova a diventare famigliare degli scarti del mondo, di coloro che risultano rifiutati, messi in disparte, svalutati, sminuiti. Magari, solo per pregiudizi estetici. Niente di più familiare:

«Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima» (Isaia 53, 2-3)

Questo il Servo di Jahvè, di cui parla Isaia. Come non vedervi l’avventura, umana e divina, di un povero Cristo, durante il Venerdì della Sua Passione? Sotto lo sguardo, sotto tanti sguardi. Molti, di condanna e riprovazione. Qualcuno, di curiosità. Magari, alcuni, di pietà. In ogni caso: troppi sguardi. Perché, alle volte, per non sentirsi uno scarto, si ha bisogno di poter nascondere lacrime, sudore, sangue, fatica nel velo di una Veronica, accorsa da chissà dove, chiamata da nessuno, ma spinta da quella pietà che non guarda il volto, ma cerca il cuore, provando a mettere in sintonia il proprio con quello di Dio.
Cristo, lo Scarto, vi ha fregati, sembra dire Pietro ai suoi interlocutori. Pensavate che bastasse eliminarLo, per imprigionare la Parola? Lo Spirito non conosce barriere: lo sa bene Pietro che – specifica Luca – era «colmato di Spirito Santo». Basta il Suo Nome, perché ogni cosa Gli obbedisca. Ciò che ha donato nella Sua venuta, lo ha lasciato in eredità alla Chiesa, Sua Sposa: è lei ad avere, ora, l’onore (e l’onere) di mettere i piedi sulle orme di Cristo, sulle orme di un amore gratuito, pieno ed appagante, libero e incapace di costringere alcuno. Esigente, come ogni amore che nasce nella libertà.

Vedendo poi in piedi, vicino a loro, l’uomo che era stato guarito, non sapevano che cosa replicare (At 4, 14)

Silenzio, imbarazzato silenzio. Questo suggerisce la conclusione del brano degli Atti. Eppure, è anche colmo di stupore ed estremamente dignitoso. Mi fa pensare al valore del silenzio, quando si ignora una situazione, non si conoscono i dettagli, mancano gli elementi per poter valutare. Ci sono situazioni in cui “un bel tacer non fu mai scritto”. A volte, si tratta solo di una sospensione del giudizio. Talvolta, il silenzio è funzionale alla possibilità di riflettere meglio su quanto l’esperienza ha posto innanzi a noi, in un momento in cui non eravamo dotati degli strumenti necessari, per poterlo analizzare in modo corretto. Quante volte, pensiamo di dover parlare, perché interpellati da qualcuno? Quante volte, mentre discorriamo, invece di ascoltare gli altri, la nostra mente è concentrata sulla risposta da dare. A volte, penso che dovremmo (anche noi donne, con un po’ di sana autocritica!) concentrarci su una cosa alla volta, prestazione la massima attenzione, quando riceviamo il dono di una conversazione, di una confidenza, di un’informazione. Non sempre, è necessario rispondere. Alle volte, è necessario, semplicemente, accogliere quanto riceviamo in dono, con la naturalezza di un abbraccio. Perché, alle volte, sentirsi – semplicemente – ascolti è capace – da solo – di regalare la sensazione di essere abbracciati.
Non sottoposti ai raggi X, valutati, soppesati, messi in discussione per ogni minimo particolare. Ma abbracciati: di quegli abbracci che impariamo ad apprezzare sul petto delle madri, quando non le cerchiamo più per riceverne cibo (cfr. Salmo 131).

Paolo confida, invece, nella Lettera ai Corinzi, la delusione patita in seguito alla predicazione ad Atene: i Greci non hanno accolto la Parola di Dio, preferendo la sapienza che viene dagli uomini. Questo, però, per Paolo, diventa anche motivo per meglio specificare la differenza che abita il fatto cristiano: non è una filosofia, né (esclusivamente) un esercizio di intelletto e razionalità. Ciò non significa, naturalmente, che la fede in Cristo sia irrazionale, ma che richiede anche qualcos’altro. Come ebbe modo di sottolineare Benedetto XVI, durante l’udienza del 21 novembre 2012  , « La tradizione cattolica sin dall’inizio ha rigettato il cosiddetto fideismo, che è la volontà di credere contro la ragione. Credo quia absurdum (credo perché è assurdo) non è formula che interpreti la fede cattolica. Dio, infatti, non è assurdo, semmai è mistero. Il mistero, a sua volta, non è irrazionale, ma sovrabbondanza di senso, di significato, di verità. Se, guardando al mistero, la ragione vede buio, non è perché nel mistero non ci sia luce, ma piuttosto perché ce n’è troppa. Così come quando gli occhi dell’uomo si dirigono direttamente al sole per guardarlo, vedono solo tenebra; ma chi direbbe che il sole non è luminoso, anzi la fonte della luce? La fede permette di guardare il «sole», Dio, perché è accoglienza della sua rivelazione nella storia».
Colpisce una sottolineatura di Paolo, a cui, forse, prestiamo troppo poca attenzione:

«chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare?». Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo. (1Cor 2,15-16)

Noi abbiamo il pensiero di Cristo: il Verbo si fece carne e impresse le sue orme, sulle strade del mondo. Camminò, visse, pianse, sudò, pregò, sorrise. Se Cristo è Dio, noi possiamo dire di poter conoscere il pensiero di Dio. Conosciamo le sue parabole. Di più. Conosciamo le sue preferenze, i suoi affetti, le sue sensazioni. Persino, le sue debolezze: di fronte alla fede autentica, non sa dire di no. Aborrisce l’ostentazione, ma dove vede la fede, dimentica tutto il resto; persino le proprie, stesse parole. Quante parole avrà detto Cristo? Potremo mai conoscerle tutte? Cristo, Parola eterna, non smette di parlarci.
Di questo, rassicurò i suoi, dei quali conosceva la scarsa memoria e la fragile volontà (ma, in tutta franchezza, cosa dovremmo dire di noi, oggi?):

«il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». (Gv 12, 29)

Cristo l’aveva immaginato. Siamo bravi a dimenticare. Abbiamo estremo bisogno di un aiuto alla memoria, di un ricordo costante. Come il popolo d’Israele, che ha bisogno di un moto di memoria, per accostarsi ai Dieci Comandamenti (cfr. Deuteronomio 6): è nel ricordo, che è possibile accostarsi alla Parola. È nel memoriale, che si svolge sull’Altare, che la Parola prende corpo, perché “lo spirituale è concreto” e, senza concretezza, rischiamo di vivere una fede disincarnata, vaga e dal sapore un po’ cataro.
In quel Corpo, offerto, c’è un Nome, impresso come sigillo d’amore, in un’alleanza eterna, nella quale non esistono più scarti, perché, nello Scarto risorto, tutti gli scartati, possono ora alzare lo sguardo e guardare verso il Sole, senza più paura!

 

Rif: letture festive ambrosiane nella VI Domenica di Pasqua, anno A (At 4, 8 – 14; 1Cor 2, 12 – 16; Gv 12, 25 – 29)


Fonte immagine: Pixabay

Fonte: don Raffaello Ciccone, parole nuove (Qumran2.net) http

 

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