Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Risorto con piaghe 956x478

Per comprendere il testo della prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, dobbiamo rifarci a quella di martedì scorso, che affronta il terzo capitolo, nel quale leggiamo che Pietro e Giovanni, salendo al tempio, presso una delle porte di Gerusalemme, s’imbattono in uno storpio, che domanda loro l’elemosina. Il Principe degli Apostoli gli risponde: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (At 3, 5). In questo episodio, Pietro dimostra di seguire le orme del Maestro, perché risponde ad una domanda che lo storpio non aveva fatto, ma che sicuramente aveva nel cuore. Non essendo in grado di lavorare, è costretto a mendicare, per sopravvivere. Non chiede di guarire: forse perché è rassegnato, oppure perché non spera di poter guarire; difficile, però, che non abbia mai sognato di poter provare l’emozione di camminare sulle proprie gambe, senza più zoppìa, senza doversi appoggiare ad una gruccia, oppure aver paura di cadere.
Dopo anni di sogni infranti, sofferenza, dolore, rassegnazione a vivere dell’altrui elemosina, un giorno, all’improvviso, inizia a camminare, sotto gli occhi, esterrefatti, degli astanti.
Quest’uomo, storpio dalla nascita, era posto lì ogni giorno a chiedere l’elemosina: impossibile che una simile guarigione potesse passare inosservata. Al popolo accorso, incredulo, san Pietro fa quella che, oggi, chiameremmo una catechesi, sollecitandoli a non attribuire agli apostoli il merito di quanto compiuto, bensì a quel Gesù Cristo, che era stato messo a morte ed aveva sofferto la Passione ed invitandoli a convertirsi e cambiare vita, ricordando loro la loro discendenza di «figli di profeti» (At 3, 11 – 26).
È in questo punto che s’inserisce la lettura liturgica festiva: la voce si sparge ed arriva anche ai sacerdoti, che fanno arrestare Pietro e Giovanni. Riconosciutili come quelli che stavano con Gesù, sembrò loro il ridestarsi di un incubo: non era bastato uccidere Gesù per placare l’ennesima messianica. Vedendo il favore del popolo e non volendo essere causa di repressione da parte dei Romani, cercano allora di trovare un compromesso, invitando i discepoli a non parlare di Cristo, quale condizione per la libertà. Qui, Pietro, si mostra finalmente quale Capo degli Apostoli, ben lontano dalla pavida e sbiadita versione di se stesso che ci aveva offerto durante l’arresto di Gesù:

«Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4, 19 – 20)

Questi poveri sacerdoti, tanto impegnati a trovare un accordo, non riescono proprio ad avere un po’ di tranquillità. Ci speravano, una volta eliminato il Maestro, che quella lontana provincia romana potesse tornare ad essere niente più che una, tra le tante, con un popolo stretto attorno alle antiche tradizioni dei Padri, come ve n’erano tanti, in quel lembo di terra affacciato sul Mediterraneo, a cavalcioni tra Asia ed Africa. Una simile risposta, però, non prometteva nulla di buono, secondo il loro punto di vista e preannunciava il preambolo della Chiesa nascente: pronta ad obbedire a Cesare, ma senza nulla togliere alla legge di Dio!

La fede della Chiesa nascente è una fede che sta imparando a muovere i primi passi in absentia del fondatore e ciò avviene, senz’altro, tra mille titubanze, parecchie difficoltà, diverse asperità da sanare, così come qualche divergenza di prospettiva tra i componenti che la animano.
Lo vediamo anche nel famoso episodio evangelico che vede protagonista Tommaso, detto Didimo. O, meglio, la fede – in – cammino di un uomo che non si rassegna a prendere in prestito quella altrui. Con Cristo ha vissuto, pescato, parlato, pregato, camminato, sofferto; magari, pianto. Non poteva bastargli sentire dire – dagli altri – che Cristo fosse risorto. Era normale pretendere di più. Dopo aver condiviso tutto: sole, pioggia, insulti, acclamazioni, incomprensioni, lungo le strade della Galilea, ora voleva sapere se davveroil Signore era risorto, come aveva detto. Voleva sentirlo lui. Vederlo lui. Come l’avevano visto anche gli altri.
Di fronte ad un lutto, torniamo tutti un po’ bambini: ci stringiamo ai ricordi, come ad un pupazzo di stoffa. Non vogliamo lasciarli. Ogni volta che torniamo a guardarli, sembrano sempre più belli. Ci attacchiamo a loro, come a una fune che ci possa trarre da una scarpata profonda ed insidiosa.
Anche Tommaso fa così. Butta avanti il cuore, oltre l’ostacolo. Fa una protesta d’affetto, al Signore, perché vuole poterGli stare ancora vicino, come allora. Come tante volte. È sempre difficile affrontare un cambiamento. Le abitudini, spesso, diventano una comoda comfort zone in cui rifugiarci, mettendo a tacere le domande scomode.
Gesù, però non si tira indietro. Anzi, sembra quasi di avvertire un rimprovero attenuato dalla simpatia, in quelle parole: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!».
Tommaso non regge, al sentirsi ripetere, parola per parola, la propria protesta dal Signore: «Mio Signore e mio Dio!». Me lo immagino cadere in ginocchio, quasi istintivamente, travolto dalla tenerezza del Cristo. Come san Pietro sul lago di Tiberiade. Come i magi. È il più puro degli atti d’adorazione. Perché, come ebbe modo di ricordare Benedetto XVI:

«Inginocchiarsi davanti all’Eucaristia è professione di libertà: chi si inchina a Gesù non può e non deve prostrarsi davanti a nessun potere terreno, per quanto forte. Noi cristiani ci inginocchiamo solo davanti al Santissimo Sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio, che ha creato il mondo e lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito»
(Messa del Corpus Domini, san Giovanni in Laterano, 26 maggio 2005).

La professione di fede di Tommaso è motivo di speranza, per noi, cristiani di ogni tempo e latitudine. Soprattutto, per noi, cristiani d’oggi, figli del dubbio e della perplessità, abituati a contare sulle nostre forze, più che affidarci a Dio. Ci dona speranza, perché ci offre la certezza che Cristo non ci abbandona al nostro credere incerto, alla nostra richiesta di affetto, stima, attenzione. Ci viene incontro!
Ci permette di esporre quelle che noi riteniamo siano le nostre necessità, prima di svelarci quali siano quelle più autentiche. Perché è innegabile che – il più delle volte – fatichiamo a conoscere la nostra interiorità. Valutiamo come impellenti i nostri desideri, le nostre abitudini e non le nostre necessità.
È il Risorto che ci apre gli occhi e ci consente di guardare il mondo (a partire dal nostro piccolo mondo) con una prospettiva differente. La Sua. Quella di un Dio che, fattosi uomo e caricatosi della nostra iniquità, è risultato vincitore anche della nostra più acerrima nemica.
Quelle piaghe sono testimoni di una storia. Una storia di un Dio a cui non è stato risparmiato nulla (se non il peccato): non gli sono mancati il dolore, la sofferenze, l’afflizione, il lutto; ma, anche, l’amicizia, l’amore, la tenerezza, l’attenzione, la cura, la curiosità, così come l’invidia, la gelosia, la maldicenza, l’odio.
Quegli occhi hanno portato lo sguardo di Dio sul mondo, hanno attraversato la solitudine e l’abbandono, hanno sfidato a duello la morte.
Se incontriamo davvero quegli occhi, come possiamo avere ancora paura?

 

Rif. Letture festive ambrosiane, nella II Domenica di Pasqua (Domenica in Albis Depositis) – Atti 4, 8 – 24a; Colossesi, 2, 8 – 15; Gv 20, 19 – 31


 Fonte immagine: la parte buona

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