Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Sinodo

Dove non arriva la certezza della dottrina, arriva la fanciullezza di spirito di un bambino. Come andrà a finire il Sinodo, solo lo Spirito potrebbe tentarne una previsione, senza dare l’impressione d’essere irriverente. L’unica cosa, quasi certa, è che c’è già un’immagine ad aleggiare sopra i padri sinodali, forse anche a mò di ispirazione, d’incoraggiamento. E’ quella raccontata da don Roberto Rosa, parroco di San Giovanni Apostolo a Trieste: un bambino, appena ricevuta l’Ostia consacrata nella sua prima comunione, la spezza in due metà e ne porta una al papà che, vivendo una situazione che la dottrina definisce “irregolare”, non avrebbe potuto riceverla. Sul medesimo gesto, se solo fosse stato compiuto da una persona adulta, abiterebbe il sospetto d’essere troppo gagliardo per non apparire come sfida. Compiuto da un bambino, appare una fanciullesca convalida del nuovo stile teologico che papa Francesco tenta, faticosamente, di mettere in circolo nell’amare della Chiesa: la logica scandalosa della tenerezza, l’esatto contrario del freno-a-mano-tirato.
E’ un gesto, eppure è molto più di un gesto: abbiamo urgente bisogno di passi coraggiosi verso il futuro, di prospettive nuove che aprano porte chiuse con largo anticipo sull’orario di chiusura, di risvegliare quella creatività in amore che non è la voglia di fare ciò che si vuole, ma il saper ricreare la vita laddove la morte tenta di arginarne la crescita. Immagino l’amarezza di quel bambino se, magari ancora con la sua mezza Ostia in mano, s’accorgesse che anche questo Sinodo è stato a tal punto preparato e condizionato da una certa frangia di pensatori da non apportare nessuna briciola di consolazione al cuore di suo padre, forse anche di sua madre. Le sento già le solite “lezioncine-dispense” preparate all’indirizzo di questo bambino: il Corpo Glorioso di Cristo, la disposizione d’animo di chi s’appresta a ricevere l’Eucaristia, la confessione precedente. Tutte cose santissime, che hanno fatto di un Amore ebreo una storia di salvezza e di grazia. Eppure l’Amore, quello fattosi seriamente storia, non conosce condizioni di sorta: anche nel petto di Giuda, quel giovedì sera, Cristo andò ad inabissarsi, imboscato in un pezzo di Pane-non-più-pane.
Il giorno della sua prima comunione, invece, un bambino affronta con coraggio la situazione, confidando nella presenza di Dio: è motivo sufficiente per scatenare il putiferio della commozione viscerale di Cristo. “Io, bambino, oggi incontro te, mio Gesù, per la prima volta: il nostro incontro è di una gioia così gigantesca che non posso tenerla tutta per me. Ne voglio dare un po’ anche a mio papà, a mia mamma: è la mia famiglia, quella che mi ha dato la vita, quella senza la quale oggi non t’avrei incontrato. Non ti voglio tutto per me: falli sentire amati anche loro. Nonostante tutto, forse proprio per quello”. Forse hanno ragionato così anche i padri del Concilio Vaticano II quando, supportati da teologici dalle finezze sopraffini, hanno firmato il rischio di un cambiamento piuttosto che arenarsi nella sicurezza della schiavitù. Gettando all’aria le mille cartacce piene di buone intenzioni ma che, senza il colpo d’ala dello Spirito, sarebbero rimaste intenzioni, seppur buone. Inutili.
L’unico dispiacere è che questo bambino non abbia voce in capitolo dentro le aule sinodali: lo Spirito, però, gli ha fatto trovare la voce del suo parroco per farsi sentire. E lui, nascosto in quella voce narrante, ha spiegato con dovizia di particolari che credere nella risurrezione dei morti è una dottrina di fede, anche facile da sottoscrivere. Credere nella risurrezione dei vivi, invece, è il postumo d’aver incontrato Cristo, per davvero. E, dopo quell’incontro, averlo preso per mano per accompagnarlo dentro casa: c’erano dei cuori a lui cari da ricucire.

(da Il Mattino di Padova, 18 ottobre 2015)

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