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Che sia la natura con tutta la sua forza, o l’uomo che, con tutta la sua assurdità, fa emergere il suo lato più bestiale e disumano, è proprio in questi momenti che all’uomo è richiesto, come in supplice preghiera, di riscoprire quella solidale fraternità che ci vede accomunati dal nostro essere coabitanti di un stesso pianeta, compartecipi di un cuore che, di fronte al lutto, prova dolore e nostalgia ma cerca nuove speranze a cui affidare il proprio sguardo.
C’è un dolore che l’uomo, in un certo senso, si auto infligge, quale conseguenza di scelte sbagliate fatte nella ricerca di una falsa libertà che crea nuove schiavitù (basti pensare ad aborto ed eutanasia, quali esempi significativi di un’idea logica che, proponendo nuove libertà, finisce col determinare nuove e più atroci sofferenze all’animo umano, spingendolo contro i suoi istinti più naturali, come l’affetto per i propri consanguinei, che l’uomo ha sviluppato sin dagli albori delle prime civiltà).
La morte coinvolge tutti e non scampa nessuno: sarà triste ma anche realistico ammetterlo, tutto ciò che è vivente ha avuto un inizio e avrà una fine. Questa è la legge della natura: solo una legge soprannaturale può consentire che esista vita oltre la morte.
Nonostante questa certezza, che tutti possediamo, pur volendola intimamente rimuovere, non tutte le morti implicano lo stesso impatto emotivo su chi guarda.
Impossibile dimenticare, nel 2009, quella strana liturgia del Venerdì Santo, che con Cristo in croce ricordava anche tanti morti per un terremoto, con la domanda, mai doma, se tutto ciò fosse da attribuire solo alla furia cieca della natura oppure alla nequizia e alla negligenza umane (e, se positiva la seconda ipotesi, inevitabile chiedersi con quale percentuale).
Di nuovo quest’anno, con pochi giorni di differenza s’incrociano l’ordinaria liturgia e la straordinaria cronaca di questi giorni, che conta centinaia di vittime, morte intrappolate, nello schianto contro una montagna, volontariamente provocato da un pilota civile di un aereo di linea di una tratta che oseremmo dire “trafficata, comune” come è Barcellona-Dusseldorf.
Di fronte a un tale sgomento, l’unico pensiero che può venire è “Speriamo non abbiano sofferto, speriamo siano passati dalla morte al sonno in un solo momento!”. È forse questo l’unico pensiero che possa rincuorare chi ha perso qualcuno a causa di un pazzo con una classifica tra le mani che ha deciso di schiantarsi contro una montagna, i cui resti non potranno neppure essere raccolti in una bara. Non è il primo, ci ricordano i seguaci delle statistiche. Probabilmente, non sarà neanche l’ultimo, perché è da sempre che la follia ha accompagnato il genere umano.
Folli erano tanti artisti che col loro genio ci hanno fatto sognare, salvo poi spegnersi, pagando a caro prezzo le loro sregolatezze: quasi martiri del loro essere diversi, capaci di donare agli altri opere meravigliose, ma vittime di se stessi e dei loro eccessi.
Eppure, in tutto questo dolore sordo, che sembra non trovare requie, un germe di Bellezza già produce i primi frutti: pensare che un intero paese, Méolans-Revel, nei pressi di Barcelonette, nell’alta Provenza, abbia aperto le porte a parenti ed amici delle vittime di questa strage dal debito umano incalcolabile (basi pensare a quella scolaresca tedesca, la cui morte ha pressoché annientato una generazione di un piccolo paese tedesco).
Di fronte al dolore, le parole annichiliscono, ma l’azione diventa, nella sua semplicità, capace di toccare senza procurare fastidio, la ferita ancora aperta e sanguinante. Ecco perché, ancora oggi, dopo 2000 anni, quel Crocifisso di Galilea continua ad essere un contributo imprescindibile nel farci sentire fratelli, nonostante in tanti, troppi si prodighino per toglierlo dai muri delle pareti (non potendo – o non volendo – far fronte all’Ingiustizia che ci ricorda, vogliono togliere anche quello scomodo souvenir di ogni volta che “abbiamo lasciato il nostro fratello morire da solo”).
Uomo del dolore, che ben conosce il patire: Dio e Uomo, Uomo e Dio, così Dio da conoscerci in ogni anfratto, così Uomo nella sua autentica credibilità. Di fronte all’Uomo della Croce, nessuna altro uomo può sentirsi davvero, completamente solo. Perché Cristo è quell’Uomo che ci prende per mano proprio nel momento del dolore, proprio quando nessun altro ha il coraggio di starci vicino, quando la folla osannante se ne è andata e il sipario s’è chiuso alle nostre spalle. Ecco perché l’accorato appello diventa preghiera colma di speranza, in questa poesia, che è una di quelle senza tempo e senza spazio, che si perde negli abissi e li sa abitare. Una di quelle poesie che sa far vibrare le più profonde corde del cuore dell’uomo; quelle tonalità gravi che solo chi ha il coraggio di ricercare l’oltre può avvicinare senza avere un brivido.

Fa piaga nel Tuo cuore
La somma del dolore
Che va spargendo sulla terra l’uomo;
Il Tuo cuore è la sede appassionata
Dell’amore non vano.

 

Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, Santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
D’un pianto solo mio non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.

(Giuseppe Ungaretti)

Apre le braccia, sulla Croce, per essere vicino a tutti quelli che soffrono, spesso in silenzio e da soli. A tutte le vittime dell’ingiustizia sociale, civile e penale. A tutte le vittime dei crimini di stato che sono stati legalizzati. A tutti coloro che hanno rinunciato a qualunque forma di giustizia terrena perché non possono permettersi di pagare un avvocato che possa proteggerli dalle angherie dei potenti. Dà voce a chi non ha voce, anima e corpo a chi ha perso anche la dignità e lacrime nuove a chi le ha consumate nella disperazione.
Lui, l’Uomo del Venerdì Santo, da cui vogliamo distogliere lo sguardo per lo schifo che ci provoca il Suo corpo martoriato e per l’implacabile senso d’impotenza che ci fa respirare, nostro malgrado, è l’unico a poter capire tutto questo perché è il Giusto ingiustamente condannato (apice di ogni ingiustizia umana ed abuso di potere), è il leader abbandonato dai suoi seguaci nel momento in cui chiunque avrebbe voluto un briciolo di compagnia e sostegno (è il paradosso del divismo: i fan non mancano mai, quando non servono!), è la Bellezza che accetta di offuscarsi per non essere velo alla nuda Verità.
La coesistenza, in Cristo, di umanità e divinità è uno dei misteri più profondi: in lui, la perfezione divina ha preso forma umana; la pienezza di Dio ha trovato modo di manifestarsi nella carne umana fino ad arrendersi, pur se temporaneamente, alla morte.
Non è il Venerdì Santo che fa la Pasqua cristiana; ma senza attraversare lo strazio della Passione, non è possibile assaporare l’inondazione di Luce con cui ci sorprende l’alba della Resurrezione!

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