Un perdente della peggior specie. Così fallito d’essere stato appeso al patibolo come gesto d’infamia e avvisaglia per i posteri: per tutti coloro che, nel nome Suo, s’azzarderanno nell’ardua avventura della Verità. Sulla Croce: il disprezzo, la villania; il disgusto manifesto, il ludibrio pubblico, la vergogna nazional-popolare. Perché dunque esaltare Costui, portare a spasso costei – la Croce -, battersi il petto e intonare canti? Perché acclamare un perdente – che è poi Il Perdente per eccellenza – col rischio d’apparire ridicoli oltrechè illusi prima e disillusi a posteriori? Che significa «Ti saluto, o Croce santa, / che portasti il Redentor; / gloria, lode, onor ti canta / ogni lingua ed ogni cuor»? (liturgia della Festa dell’Esaltazione della Santa Croce).
Aveva forse ragione donna Mansueta, settant’anni sulla groppa dei quali oltre cinquanta a raffazzonare lezioni di catechesi. Ne era davvero convinta: “se non preghi Dio non t’aiuta. Chiedigli subito scusa. Ci penserà Dio a punirti”. Forse s’era dimenticata che la Croce non fu il titolo di coda di quell’inimitabile storia d’amore: dopo la Croce del Venerdì, ci fu lo sterminato silenzio del sabato e la sorprendente sorpresa della domenica. Quel sepolcro trovato vuoto che divenne la ragione prima della grandezza di Maria, quella di Nazareth: reggere il peso di star sotto la Croce le valse il diritto di guardare in faccia la morte – che da quel giorno divenne la croce più insopportabile – e sbeffeggiarla assieme al Figlio suo Risorto: «Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (1Cor 15,55). Dov’è, o Croce, la tua arroganza?
Eccola la Croce per la quale oggi s’imbastisce una festa (al mio paesello addirittura una sagra); festa tanto bella quanto incomprensibile. Ci sarebbe davvero da festeggiare, a ben pensarci. Festeggiare fino alla stordimento, all’eccitazione più piena, al punto tale da tornarsene a casa con la testa che gira e il corpo sbilenco che traballa tant’è la gioia. Quella croce non è bella in sé: è un legno, sporcato di sangue, trafitto dalla menzogna, patibolo di infami. E’ un legno che non vale nulla, nemmeno il prezzo di uno scranno che da lì qualche bravo falegname potrebbe recuperare. Quel legno vale solo perché ha ospitato l’Amore sbeffeggiato. Al pari di quel vecchio lenzuolo macchiato di sangue: il suo prezzo è irrisorio, qualche soldo o poco più l’avran pagato. Eppure il suo valore è divenuto inestimabile per aver coperto il Re per un pugno d’ore. Nessun oggetto ha valore in sé: chi gli tributa fama, gloria e sprechi è la grandezza e la santità di chi l’indossa. Così fu anche di quel legno: valeva poco più di nulla, divenne il simbolo universale dell’Amore folle. Quello che il Vangelo colora di esagerazione: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito». Non scrisse che “Dio ha amato il mondo”. Si concede il lusso di un’esagerazione: “ha tanto amato il mondo”. Ha rischiato, ha esagerato, s’è quasi fatto passare per scimunito agli occhi dei sapienti. Tanto.
Le tre vittime montarono insieme sugli sgabelli.
I tre colli furono infilati nei cappi allo stesso momento.
“Viva la libertà!” gridarono i due adulti.
Ma il ragazzo rimase in silenzio.
“Dov’è Dio? Dov’è?” chiese qualcuno dietro di me.
Ad un segno del comandante del campo, i tre sgabelli rotolarono…
Cominciò la marcia dinanzi alle forche. I due grandi non vivevano più. Le lingue cianotiche penzolavano gonfie. Ma la terza corda si muoveva ancora; così leggero, il ragazzo era ancora vivo…
Stette là per più di mezz’ora, lottando tra la vita e la morte, morendo d’una lenta agonia sotto i nostri occhi. E lo dovemmo guardare bene in faccia. Era ancora vivo quando io passai. La lingua ancora rossa, gli occhi non ancora vitrei. Dietro di me, udii lo stesso di prima domandare:
“Dov’è Dio adesso?”
E udii una voce dentro di me rispondergli:
“Dov’è? Eccolo lì – appeso a quella forca…”
Quella notte la zuppa sapeva di morto.
(E. Wiesel, La Notte)
Quel legno è davvero da esaltare. Perché è stato abitato dall’Amore, perché è divenuto il simbolo dell’Amore esagerato, perchè ciò che gli uomini volevano simbolo del fallimento divenne simbolo del riscatto: della vita che non molla. Di Satana che, imbecille come nessun altro, s’illude sempre d’aver l’ultima parola: «La sua ignoranza è una benedizione» (J. Green, Colpa delle stelle). Quella che abbassa le serrande. Che, invece, da quella Croce s’alzano solamente: per ospitare – «Non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» – e per ricominciare. Per scandalizzare, anche: perché il vero scandalo – con buona pace di Mansueta – non è un Dio che muore in croce ma un Dio che risorge e prende a schiaffi la Morte. Che, paradossale quanto ambizioso, piuttosto che spiegare il perchè del male, scelse l’unica lezione che si poteva ascoltare senza correre il rischio d’interpretare malamente: scelse d’abitare il dolore più assurdo e assoluto – la Morte – per poi risorgere. Lasciando la più splendida tra le eredità possibili: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Ovvero contempleranno la Croce dal giardino della Risurrezione.
Da una posizione privilegiata.