Mantova – La faccia è rimasta quella di dieci anni fa. D’altronde, come ama ripetere alle migliaia di ragazzi che va incontrando, «la tua faccia è l’unica storia che un giorno potrai raccontare». Anche lo sguardo è rimasto quello degli inizi: intenso, conturbante, indecifrabile. Pensieroso: d’altronde calarsi negli anfratti delle periferie più estreme (è parroco del carcere di massima sicurezza di Padova) significa mettere in conto di uscirne diversi. Di pagare pure lo scotto di qualche capello che muta colore. Ciò che non cambia è la passione travolgente di questo piccolo prete di periferia che a viaggiare col vento contro ormai ci ha preso gusto per davvero. E, strada facendo, anche in qualche detrattore tra i più accaniti comincia a farsi largo un sospetto: che certi uomini e donne abbiano così tanto coraggio addosso da rischiare l’ignominia e la solitudine pur di non tradire i loro sogni.
Esce in questi giorni L’imbarazzo di Dio (San Paolo, 2014), l’ultima fatica di don Marco Pozza, definito dalla stampa «uno degli autori spirituali più promettenti di questo momento». Forse l’avrà scritto di notte. Oppure in volo, o magari in treno: rimane ignoto il numero di ore giornaliere che il Cielo gli ha donato. Se sono ventiquattro come quelle di tutti, allora somiglia davvero ad Antoine de Saint-Exupéry, il suo scrittore preferito: non si scrive per vivere ma si vive per scrivere. Chapeau! L’abbiamo incontrato a margine del suo intervento al Festival della Letteratura di Mantova. Un’intervista fatta in strada, il suo salotto preferito. Come dieci anni fa.
Il suo nuovo libro porta un titolo accattivante: L’imbarazzo di Dio. Si tratta dell’ennesimo titolo ad effetto?
Tutt’altro. Più che di un titolo ad effetto, si tratta del più concreto tra i titoli plausibili, l’unico che – tra mille possibilità diverse – mi ha dato la percezione netta d’essermi avvicinato a narrare ciò che il Vangelo suscita in me. Avrei voluto raccontarlo a voce, ma non ci sarei riuscito. Ho scelto di affidarmi alla fragilità delle parole scritte per raccontare una storia, per sussurrare una confidenza, per condividere la più intrigante delle storie d’amore possibili: quella tra Dio e l’uomo. L’imbarazzo come fonte di disagio: la perplessità, la confusione, il sentirsi d’impaccio e d’intralcio. Ma anche l’imbarazzo nella sua accezione più bella: la conseguenza dell’essere stati sorpresi, l’avvertirsi spiazzati da un incontro che non t’aspettavi, l’intrigo di una ripartenza. Il cristianesimo è storia, Dio si è fatto storia: giorni, stagioni, passaggi. Per me questa storia rimane la più imbarazzante tra tutte quelle mai udite quaggiù. Oltreché la più ambiziosa e paradossale.
Ci sono due parole senza le quali il suo libro non avrebbe forse la forza di reggersi in piedi: la parola sorpresa e la parola innamoramento.
Che, a ben pensarci, sono le medesime parole senza le quali il cristianesimo stesso non starebbe in piedi. La parola sorpresa è per me una “parola-misura”. Per me un uomo – oltreché «dall’intensità dei suoi sogni» (A. Merini) – si misura dalla sua capacità di lasciarsi sorprendere: da qualcuno, da qualcosa, da una storia come da un incontro. Nel Vangelo per me è racchiuso il segreto per essere uomini grandi oltre che grossi: lasciarsi sorprendere per poter essere veri. La sorpresa è il contrario dell’abitudine, come il giardino è il contrario del museo e le farfalle lo sono dei dinosauri. La sorpresa porta poi all’innamoramento: non quello vacuo delle piccole storie d’amore, ma l’innamoramento che capovolge una storia, il sospetto d’essere dentro ad un qualcosa d’inimmaginabile, la percezione di far parte di una storia più grande di te. Di avere un posto nel mondo. Nel Vangelo sorpresa e imbarazzo coincidono come in pochissimi altri luoghi al mondo: Dio sorprende la storia facendosi storia, non fuggendo dalla storia. E, una volta sorpresa dalla gioia, la storia diventa il palcoscenico più ardito per narrare di questo incontro.
S’avverte che per lei il cristianesimo è qualcosa di vivace, che profuma di freschezza e di novità. Qual’è il di più che lei trova nel cristianesimo?
Per usare la medesima grammatica, potremmo dire che il cristianesimo è più poesia che prosa, il cristiano è più un pittore che un imbianchino, un giardiniere piuttosto che un custode. Non ho scelto di nascere cristiano ma, una volta cresciuto, ho scelto di rimanere cristiano. Potrei dirle i miei dieci motivi per rimanere cristiano, ma le voglio confidare l’unico che valga la pena d’essere citato. Perdoni la mia citazione latina, gliela spiegherò subito. Solitamente si dice: «Nihil amatum nisi praecognitum» (“nulla è amato se prima non viene capito/compreso). E’ una prassi del nostro modo di vivere: “prima voglio capire, poi deciderò se amare o meno”. Lo si dice di una situazione, di un evento, di un incontro. Il cristianesimo propone un ribaltamento di prospettive, il più ardito: “nulla è compreso se prima non viene amato”. A me basta questo per far impazzire il cuore e la mente: l’amore viene prima della conoscenza. Cioè: se non ami, non comprendi. Se poi lo si dice dell’uomo, l’imbarazzo arreca quasi fastidio: non è facile amare i perdenti e i perduti della storia. Eppure se li vuoi capire – assieme ai loro mille perchè indecifrabili – la strada è sempre quella: amarli ad oltranza. Gliela riassumo in una frase: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perchè bisogna amare ciò che non ci piace, per poi poterlo cambiare» (P. Borsellino). Questo ribaltamento di prospettiva è quasi una nuova riorganizzazione del mondo. Imbarazzante, vero?
Questo è fantastico: il mondo lo riorganizzano gli innamorati! Un po’ quello che scriveva San Giovanni XXIII: «Non siamo al mondo per custodire un museo ma per coltivare un giardino».
Quest’affermazione – che somiglia come poche altre ad una sorprendente dichiarazione d’amore – varrebbe da sola la canonizzazione di Giovanni XXIII: il cristiano come un giardiniere piuttosto che come un custode. Sono due prospettive totalmente diverse, anzi opposte. Il giardiniere semina, annaffia e coltiva. Irriga, pota e cura. Il custode di un museo sta seduto, spolvera e blocca. Prende sonno, controlla il biglietto e dice in continuazione “No Flash”. Già nei verbi s’avverte la differenza tra i due mestieri: quelli del giardiniere richiamano il rischio, l’avventura, la sorpresa. Quelli del custode s’avvicinano maggiormente all’abitudine del gesto, alla monotonia del tram tram, alla staticità di ciò che non si muove. Sono entrambe possibilità a disposizione dei cristiani. Non dico che una sia autentica e l’altra sia una farsa. Dico semplicemente che oggi – non solo nella Chiesa – la differenza la sanno firmare solo gli innamorati. Coloro che abbracciano il rischio del non ancora piuttosto che la sicurezza del già visto.
Nelle sue pagine c’è più poesia che prosa. In certi passaggi s’avverte netta una percezione: che lei voglia far sedere il lettore dentro il Vangelo, incamminarsi vicino a Cristo. Leggendo, sembra quasi d’essere dentro ad una storia mentre sta accadendo, non millenni dopo. Questa sua capacità di rendere odierno l’Eterno è m’incuriosisce.
La ringrazio. In realtà il copyright, purtroppo, è di un Altro: dell’Uomo che è stato capace di nascondere degli anticipi di Eternità dentro la ferialità della vita di tutti i giorni. Vede: il cristianesimo è sorpresa che imbarazza. Dio è riuscito ad incastrare l’Eterno nella vita di tutti i giorni, a far sposare l’eccezione con la normalità, la domenica con il lunedì. Dio con l’uomo. E’ sorprendente scoprire come per Gesù di Nazareth favorire il futuro significhi saper vivere il presente nei suoi aspetti contraddittori: non per nulla avremo il futuro che ci saremo costruiti. Contemplare la storia da questa prospettiva è a dir poco imbarazzante: è scoprire che la vita di tutti i giorni non è una stramaledetta cosa dopo l’altra ma è «una storia che rotola melodiosamente dalle mani di Dio» (E. Hillesum). Sapere che anche Gesù Cristo ha condiviso per trent’anni la ferialità – tra vita di bottega, baruffe di casa e attrezzi da usare – mi fa avvertire quant’è densa di significato ogni mia più piccola azione. Eccolo l’unico accenno di moralità che Gesù di Nazareth s’è permesso di scarabocchiare: firmare gesti sempre meno banali nella vita di tutti i giorni. L’altra morale – quella che s’addensa in certe navate delle chiese – ne è l’esatto contrario. Somiglia ad una bestemmia e, quindi, val bene un rifiuto. Netto: un Dio che chieda l’umiliazione delle proprie passioni è un Dio che non merita d’essere ascoltato. E’ un Dio sbagliato.
Forse non mi sono spiegato bene. Capisce, dunque, perchè ho bisogno urgente delle parole dei poeti. Perchè «per parlare dell’Eucaristia bisognerebbe essere dei poeti» (P. Mazzolari). Dei giardinieri.
Le faccio una confidenza. Quando nel suo libro lei parla degli sbagli, di chi sbaglia, delle sconfitte è come se parlasse della cosa che ha più valore nella vita di ognuno. Sono pagine che commuovono: quella delle madri, poi, è da batticuore. Si può celebrare con parole di poesia un fallimento?
Mettere in conto, la mattina quando mi alzo, di poter sbagliare durante la mia giornata mi rende profondamente libero. Ho una convinzione che nessuno mi potrà mai togliere: che non ci sia nulla di più agghiacciante che morire nuovi di zecca. Eppoi ci sono sconfitte che hanno scritto la storia più della vittorie; perdenti che nell’immaginario collettivo sono diventati più simpatici dei vincenti. La Scrittura è l’unico libro di storia scritto da un popolo perdente: tutte le altre storie le scrivono i vincitori. La mia parrocchia (il carcere, ndr) è quella con la più alta densità di perdenti dell’intera Diocesi: eppure dentro batte forte la Grazia, oserei dire come in pochissimi altri posti al mondo: chiedetelo a papa Francesco. Amare i perdenti, poi, è roba da giganti: solo le madri riescono a guardare in faccia la morte e farle gli sberleffi. La mia passione per le madri va ben oltre l’amore per mia madre: contemplare il volto di una madre – della madre di un malfattore, di un perdente, di un disgraziato – è capire l’estremità dell’amore. E’ capire chi è Dio. E’ lasciarsi sorprendere al punto tale da sentirsi in imbarazzo. Nell’imbarazzo più assoluto.
La periferia: eccolo lo scenario del suo libro. L’incipit e il commiato sono due pagine scritte in periferia, nella periferia del suo carcere. Si può essere un teologo fine come lei e lavorare in una zona disordinata com’è una patria galera?
Non potrei cantare la Bellezza se non la confrontassi con la Malvagità: il Paradiso è affascinante perchè lo contrapponi con l’Inferno. Il Bene senza la guerra contro il Male è un’idea astratta: se si toglie Nazareth coi suoi trent’anni d’apparente mutismo, non si capisce Gerusalemme. La Risurrezione. Anche Cristo ha guardato in faccia Satana e ne è uscito illuminato. Una cosa è certa: mai avrei accettato di spendere anni preziosi della mia vita dentro il caos di una galera. Era la gente che più disprezzavo da giovane, anche da prete giovane. Poi è accaduto ciò che nella Scrittura è ordinaria amministrazione: per far ridere Dio, basta parlargli dei tuoi sogni. Che, quasi sempre, non sono mai i suoi sogni. E così sono finito in periferia, giusto in tempo per farmi sorprendere da Cristo: mai avrei voluto finire qui, mai avrei immaginato che qui ci fosse la sorgente di una Bellezza così fastidiosa, imbarazzante e d’intrigo.
Poi è arrivato quest’uomo che s’è fatto chiamare col più umile e pesante tra i nomi della santità: Francesco. Ed è stata la chiave d’ingresso inaspettata per leggere la periferia. Per decifrare meglio me stesso. Per sorprendermi nel più caotico degli incroci: quello dove la Vita guerreggia ogni giorno con la morte.
Solo una domanda en passant come dicono i francesi, anche se so che del suo piccolo mondo che la circonda non ama parlare. Come mai non c’è una dedica e una prefazione: tutti gli altri suoi libri s’aprivano così. E’ una domanda stupida, me ne rendo conto.
Invece è splendida. Il mio mondo d’affetti è piccolissimo, ridotto quasi all’osso: è difficile amare uno come me e io non faccio nulla per semplificare quest’avventura. La dedica non c’è perchè è un libro che voglio dedicare alla persona che ho più trascurato in questi anni. Potrebbe essere stata scritta cosi: “A Marco Pozza. Perché di sì”. Temevo fosse brutta da leggersi, per cui l’ho omessa; ma è un libro che in questo momento voglio dedicare a me. Scrivendolo mi sono conosciuto meglio, per certi versi mi son sorpreso del mio ribaltamento di prospettive, ho amato maggiormente i miei errori più madornali. Ho imparato ad amarmi per quello che sono: un sognatore con le ali ferite. Nessuna prefazione: sono stato deluso troppe volte per affidarmi ancora alle grandi storie. Pur non rinnegandole, sento forte il bisogno di ascoltare di più le piccole storie di ognuno. La mia piccola storia. La storia di Marco: senti che bello!
Perdoni la banalità della domanda. Prima una signora le ha fatto notare che ha un capello bianco e glielo voleva togliere. M’è piaciuta la sua risposta.
Certo, mica era maleducazione. Le ho semplicemente detto: “Signora, ci ho messo trentaquattro anni prima di averne uno. Perché me lo vuole togliere con tutto il tempo che ho impiegato”. E’ vero: il tempo vissuto non mi fa paura, mi eccita fino allo stordimento. E’ il tempo vuoto che non sopporto: i capelli perfetti, i volti senza rughe, i piedi senza calli. Le storie senza sapore. Come dice uno dei miei cantanti preferiti: «Piuttosto che essere normale, hai preferito essere felice» (F. Renga). Ecco: questa, se potessi, vorrei fosse la frase da attaccare alla mia lapide il giorno in cui terminerò di scrivere la mia storia. Storia di un uomo che ha cercato la felicità: mettendo in conto ogni mattino la possibilità di fallire.
Il tempo è scaduto: un bacio sulla guancia, un grazie e via di corsa. Prima di andare a letto ci sono ancora tanti chilometri da percorrere, gente da incontrare, parole da spendere. Lo guardo e penso: un Dottorato in Teologia, migliaia di libri venduti (mica “libri spazzatura”, ndr), un’eloquenza da far battere il cuore, un ragazzo dallo sguardo che t’affascina. Si potrà mai essere felici andando sempre controvento? Entro nel suo sito e leggo una frase: «S’impara solo divertendosi» (A. France). Chi firma questa intervista da anni non varca più la soglia di una chiesa: troppo fasto, troppa morale, troppe parole vuote.
M’è rimasto in mano un libro. Leggo il titolo: «L’imbarazzo di Dio». Chi l’ha scritto ha appena finito di parlare con me. Assieme al libro m’ha lasciato un pugno di nostalgia. E tanta voglia di lasciarsi sorprendere per poter essere veri.
(a.f.)