Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

fiammetta borsellino paolo borsellino 1000
Ha preso la parola sapendo d’avere dinnanzi una platea di uomini-difficili, storie i cui protagonisti sono apparentemente uomini senza speranza. Tutt’al più uomini che hanno complicato tremendamente la speranza, singola e collettiva. Fiammetta Borsellino – ospite di un convegno svoltosi nel carcere “Due Palazzi” di Padova – è la figlia di Paolo Borsellino, la cui vita è stata frantumata in quella famigerata via D’Amelio il 19 luglio 1992, quarantasette giorni dopo la mattanza che disintegrò l’amico Giovanni Falcone: «Mio padre sentiva forte un’urgenza: comprendere l’uomo prima di tutto – racconta – Per questo amava fra i processi in lingua siciliana: per scavare negli accenti, negli sguardi, per indagare dentro le storture che mortificano la città». Il male è emergenza, il bene è prevenzione, del male prima di tutto. Prevenire è generare educazione civica di prevenzione : fare dell’emergenza la misura di ogni scelta è generare incultura, ostinarsi di stare dalla parte di chi dice “Noi non siamo come loro”. Quando, invece, l’uomo è uguale dappertutto: un perpetuo miscuglio di angelo e bestia, di bene e male.

Prevenire è scegliere da quale prospettiva affrontare la vita: «A mio padre importava dire da che parte stare per tentare la liberazione di una terra». Dalla parte dell’amore, preludio di sofferenza, condizione unica per la trasformazione: «Ricordo le sue parole: “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perchè il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace, per poterlo trasformare”». A nessuno piace morire. Qualcuno, però, è così ricolmo di vita da accettare di correre il rischio della morte per vivere appieno. Così gravido di vita da produrre una trasfusione-di-vita in coloro che gli stanno vicini, da renderli poi protagonisti di una sfida diretta contro il male, pur di non sapere vana quella morte: «Dopo la morte di mio padre, la nostra è stata un’urgenza emotiva – continua -: condividere il dolore con coloro che lo hanno provocato». Guardare in faccia il male, sfidare i suoi rigurgiti cafoni, sorbirsi l’artiglieria della menzogna. Frugare sotto il tritolo per cercare la verità, perlustrando i bassifondi degli inferi: «Non c’è strada verso la giustizia che non passi attraverso la verità». Verità nascosta, depistata, ingannata: verità che resta l’unica forma di liberazione per la vittima, il carnefice. Ragionamenti lucidi, non solo emozione.

Parole taglienti e decise, su sguardi aguzzi e altrettanto decisi: insistere su ciò che arreca paura è il grande inganno del male. Far leva sulla leggerezza del bene è la grande promessa della salvezza: «Ciò che mi rattrista – conclude – è vedere qualcuno che non riesce a compiere quel passo in più che libererebbe anche chi ha ucciso, liberando la parte migliore di sè». Parole intonate tra il ferro-cemento di una patria galera. Che paiono stonate in mezzo alle strade di una nazione che sceglie l’emergenza come carta nautica di navigazione. Così distratta da invocare a squarciagola l’ergastolo preventivo, scordandosi che la vera sconfitta del male è anticiparlo, rendendolo impotente alla sua nascita.

(da Il Mattino di Padova, 12 maggio 2019)

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