Parole che sono affilate come lame: omicidio, delitto e omertà. Una triade rocambolesca, una giostra mortale, anche un tritacarne di morte se a finire dentro i suoi ingranaggi sono delle esistenze giovani e, forse, ancora ignare di quanto sia fragile l’incanto dell’umano esistere. Ormai la cronaca li chiama con il nome del loro liceo cucito addosso: “i ragazzi del Nievo”. Quel liceo li ha accolti appena dopo la terza media; quando li saluterà, fra qualche settimana, li getterà dentro il mondo degli adulti. Dei maturi. Un aggettivo che oggi, nel mezzo di una feroce tempesta, in molti han citato: chi come augurio, chi come ironia. Io quella triade – omicidio, delitto e omertà – non me la sento d’usarla: per chi lavora dietro il ferro e il cemento delle patrie galere, i processi sommari fatti sui giornali somigliano più ad un soddisfacimento della folla piuttosto che ad una ricerca onesta della verità dei fatti. Mai, come nel caso di ragazzi, la sfida e il dovere è quello di fare di tutto per cercare il colpevole e non un colpevole. L’accaduto.
Ad imbrogliarmi la mente è tutt’altro. Una frase della loro preside rilasciata ai media: «Non sono sicura che non mi nascondano qualcosa, sono sicura che vanno capiti. Se hanno sbagliato, non volutamente, hanno bisogno di essere compresi anche loro, hanno bisogno di essere perdonati, se c’è qualcosa da perdonare». Solo a fare la semplici analisi grammaticale, la pelle d’oca è tutt’altro che un proverbio. Percepiamo la difesa “materna” di una prof che tutela i suoi figli e il buon nome della scuola che essi portano addosso. Il capitano di una squadra, però, rimane tale quando, sul baratro di un abisso, sa mantenere i nervi freddi e la logica ferrea del pensiero accesa. Quella frase scomoda un vortice di sostantivi che, spiace assai sottolinearlo, stavolta esulano appieno dalla semplice valenza semantica del vocabolario. Sono sostantivi che sfiorano come mai l’esistenza stessa: lo sbaglio e la comprensione, l’errore e l’errante, la volontà e il perdono. Sostantivi impregnati di vita e di evoluzione del pensiero. Sopratutto l’ultimo: il perdono. Come – e perchè – perdonare se non c’è la consapevolezza del gesto compiuto, la contrizione e il pentimento? In base a quale criterio uno sbaglio, definito “non voluto” ma che ha tolto un’esistenza, si può derubricare come semplice incidente di percorso? Come tentare la comprensione del male, preludio del perdonare di cuore e di mente, se quel male, qualora ci fosse stato, si ama tenerlo ben piegato in quattro nel taschino interno dell’anima? Il perdono è un pianeta nel quale il Dio cristiano ci ha messo la faccia, il cuore e la sua storia. A scomodarlo, si scomoda l’intera sua famiglia: preso a spizzichi, produce l’effetto contrario. Oltreché essere intellettualmente inesatto. Non è forse su questo crinale che la stessa città di Padova sta giocando – nel suo essere divenuta, anche controvoglia, incrocio d’accenti e di etnie – la sua battaglia tra amore e buonismo, tra misericordia e giustizia, tra dovere dell’accoglienza e tutela dei residenti? Tra confusione e paura.
Le parole hanno un significato. Certi giorni hanno anche un peso, magari un peso specifico: l’essere feritoie attraverso le quali incunearsi per cercare a tentoni una strada percorribile, magari proprio dove non sembra esserci più nessuna strada. Per scorgere una fontana e non morire di sete. Chissà che anche stavolta, a bocce ferme e una volta scesi dalla giostra, non ci tocchi dare ragione a chi – in tutt’altre faccende affaccendato – narrò come il male non sia né cinico né malvagio, ma semplicemente banale. Giocare la carta del perdono in maniera così improvvida, è una tempesta in un campo già solcato dalla siccità. Le risposte, in fronte a certi eventi, nessuno le può comperare: o sbocciano, o s’attendono. Nel frattempo educare è anche soppesare le parole.
(da Il Mattino di Padova, 31 maggio 2015)